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Chiesa di Corenno Plinio: Affresco Santa Apollonia e San Gottardo

Di fronte alla rappresentazione trecentesca dell’Adorazione dei Magi, sulla parete destra prima del presbiterio sono stati riscoperti nell’ultimo restauro del 1966 altri affreschi quattrocenteschi. Nel riquadro maggiore, quello meglio conservato, è visibile nella parte alta, sulla destra il supplizio di Sant’Apollonia e dinnanzi a lei il santo vescovo Gottardo.

Apollonia, un’africana proveniente da Alessandria d’Egitto come Sant’Antonio abate: era invocata per lenire il dolore dei denti. La santa è distesa su una tavola di legno disposta obliquamente, a cui è completamente legata con una grossa fune. Indossa una lunga tunica rossa trapuntata di stelle. Prega con le mani giunte e gli occhi rivolti al cielo. Il suo sguardo è sereno perché è confortata dalla mano benedicente di Dio che spunta dall’alto nell’angolo destro sopra la sagoma dell’antica monofora romanica. Il carnefice è un nano malvagio che stringe con entrambe le mani una tenaglia in atto di strapparle i denti. Reca inoltre altri due strumenti di tortura: una sorta di piccola mazza infilata nella cintura e un arpione nella scollatura delle vesti. È tipico dell’iconografia cristiana rappresentare gli uomini cattivi come bassi di statura e sgraziati.

Accanto ad Apollonia si erge la figura ieratica di Gottardo santo proveniente dall’area tedesca. Prima divenne abate benedettino e lavorò per la riforma dell’ordine, poi nominato vescovo di Hildesheim in Baviera nel 1022, governò per quindici anni la sua diocesi e morì nel 1038. Durante il Medioevo fu considerato un grande pedagogo e architetto. Da noi era invocato come protettore dalla febbre, dalla podagra, dall’idropisia, dalle malattie dei bambini, dalle difficoltà del parto. A lui i devoti si rivolgevano anche per scongiurare la grandine e altri flagelli naturali. Il suo culto era molto diffuso in questa zona del lago.

Nell’affresco Gottardo è rappresentato rivestito da ricchi paramenti liturgici vescovili: porta sul capo nimbato la mitra; indossa il pallio (stola lunga e stretta ornata da croci nere), regge con la destra guantata un pastorale e con la sinistra un grosso volume chiuso per indicare la sua attività di maestro. Il santo guarda compassionevolmente verso la santa martire. I due santi pur essendo vissuti in periodi e luoghi molto diversi, sono uniti dalla devozione popolare in un unico riquadro, il cui bordo segue la sagoma dell’antica finestrella romanica.

Sotto queste due santi appaiono due personaggi: uno adulto rivolto verso un fanciullo che indossa un aderente costume a bande verticali e che esce da un edificio. A fianco vi è un personaggio di cui se vede solo la veste rossa. Quest’ultima scena assomiglia a quella di san Leonardo intento a liberare un giovane prigioniero nel frammento sotto l’affresco dell’adorazione dei magi.

In alto a sinistra ci sono altri due santi: un religioso tonsurato che stringe un pastorale: può essere abate l’abate sant’Antonio. Un altro che indossa un prezioso mantello e alza la destra in segno di benedizione rappresenta un papa con il caratteristico triregno (tiara ornata di tre corone sovrapposte) in testa. Potrebbe essere san Gregorio Magno al quale è stato dedicato un oratorio nel vicino paese di Dervio.

Significato teologico/religioso
La rappresentazione di questi due santi come quella di Francesco e di san Cristoforo ci riporta al culto dei santi particolarmente diffuso in quel periodo nel mondo cristiano. I santi con la loro “presentia” e la loro “potentia” sono gli intermediari, gli intercessori tra i devoti e la divinità, un legame tra il cielo e la terra. Ognuno con una determinata funzione protettiva era invocato in momenti di grave difficoltà. In una comunità umana in balia dei flagelli naturali, delle epidemie, dei soprusi dei potenti, il santo protettore offriva una certa sicurezza e accresceva la coesione e il “capitale sociale” della comunità. La corte dei santi ha sostituito per tanti secoli, almeno nelle aspettative e nell’immaginario collettivo, le politiche pubbliche per garantire l’assistenza e il benessere dei cittadini. (cfr. approf. 5)

Giudizio estetico
Anche questa scena del martirio risale al 1400. È meno stilizzata e di un livello artistico sicuramente più elevato rispetto alle raffigurazioni sottostanti. Il pittore riesce a trasmettere un drammaticità nella scena del martirio contemperata però dalla serenità del volto della santa che esprime la sua fiducia nel Signore che sta per accogliere il suo spirito.

Roberto Pozzi

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Chiesa di Corenno Plinio: Affresco di San Cristoforo e San Francesco

sabato, Gennaio 28, 2012 @ 08:01 PM
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chiesa di Corenno Plinio: Affresco san cristoforo e san francesco

Sulla parete sinistra il visitatore trova un affresco è suddiviso in diversi riquadri contornati da fasce decorative: quelle orizzontali riproducono, secondo una concezione prospettica, delle modanature parallele; quelle verticali mostrano sequenze continue di minuscole raffigurazioni geometrizzanti, secondo in tipo di ornamentazione particolarmente usata nel Quattrocento. Nella ripartizione superiore, il riquadro di sinistra, sempre rispetto all’osservatore, contiene un busto di un gigantesco san Cristoforo che probabilmente occupava tutti i due i riquadri. Nella mano sinistra tiene il ramo stilizzato della palma, simbolo del martirio, mentre sulla spalla destra sostiene il bambino Gesù di cui si intravvede il piccolo piede sull’abito rivestito di ermellino. Il santo indossa un prezioso mantello, come è possibile riconoscere dalle tracce superstiti delle vesti. Il nome Cristoforo indica “colui che porta Cristo”. La tradizione afferma che avesse aiutato Gesù bambino ad attraversare un fiume reggendolo sulle spalle. Per questo motivo era invocato come il santo protettore dei viandanti e dei barcaioli, ma era anche colui che accoglieva il fedele e lo introduceva nella chiesa. In altre chiese come in san Giorgio di Varenna la figura del santo si trova dipinta sulla facciata.

Nell’altro riquadro a fianco di san Cristoforo è rappresentata la scena del miracolo di Francesco che riceve le stimmate sul monte della Verna. Questo episodio appartiene alla serie della Legenda maior (XIII,3) di san Francesco: “Pregando il beato Francesco sul fianco del monte della Verna, vide Cristo in aspetto di serafino crocefisso; il quale gli impresse nelle mani e nei piedi e anche nel fianco destro le stimmate della Croce dello stesso Signore Nostro Gesù Cristo.” Il santo genuflesso è in atto di venire trafitto dai raggi divini: se ne vedono ancora quattro sotto forma di linee bianche che si indirizzano verso le piaghe delle mani, di un piede e del costato. I raggi partono da una figuretta ignuda, posta nell’angolo in alto a destra, che potrebbe riconoscersi nel Cristo avvolto da tre coppie di ali piumate multicolori che richiamano l’iconografia di un serafino. Francesco è vestito con il caratteristico saio, ha la tonsura sul capo e l’aureola a rilievo. Davanti al santo è sistemata una bassa e piccola struttura cubica, come sorta di semplificato leggio, su cui pare d’intravedere appoggiato un libro aperto con delle lettere ormai più decifrabili. Le rocce del monte della Verna, dove avvenne il miracolo, danno profondità alla scena e testimoniano un’esecuzione pittorica di buona levatura. La devozione a questo santo si stava diffondendo rapidamente in tutta la chiesa portata dai Francescani i quali sul nostro territorio avevano fondato un convento a Dongo.

Nel settore inferiore, che è anche quello particolarmente compromesso come conservazione, si riesce a malapena a leggere la presenza di due personaggi nimbati e affiancati, del quale non è reperibile nessuna traccia al di sotto del busto. È ancora possibile discernere che quello a sinistra, rispetto all’osservatore, è un santo vescovo, come si rileva dalla mitra sul capo aureolato, l’altro ha una tipica tonsura che potrebbe indicare la figura di un frate francescano.

Giudizio estetico
Lo stile del frammento conservatosi con i diversi personaggi pare risalire l’affresco all’inizio del XV secolo. Infatti, si può ammirare un’impostazione formale già reperibile nei più importanti centri italiani a partire dal 1300. La qualità dell’affresco ci indicano un pittore di capacità tutt’altro che trascurabile, ben inserito ormai in una nuova realtà figurativa, ove sia le prospettive che le concezioni anatomiche rivelano un realismo già ben più convincente, a confronto con gli altri affreschi già esaminati.

Roberto Pozzi

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Chiesa di Corenno Plinio: Affresco “la Madonna del Latte e i Santi”

sabato, Gennaio 28, 2012 @ 08:01 PM
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chiesa di corenno plinio: affresco "la madonna del latte"

Sotto il dipinto dell’Adorazione dei magi, vi è un affresco più recente di pochi decenni, che è stato decapitato. La gran parte è andata distrutta; ma si può ugualmente intuire nel riquadro centrale la tipica iconografia di una “Vergine del latte”. La Madonna con i capelli fluenti sulle spalle è seduta su un trono, indossa un ampio manto azzurro ornato di fitti fiorellini rossi di gusto popolare sopra un vestito rosso. Porge il seno al piccolo Gesù seduto in grembo e tiene amorevolmente la mano nella sua mano. Purtroppo non si può apprezzare l’atteggiamento del volto andato perso.

Santi (lacerti)
A fianco della Madonna del latte vi è raffigurato un guerriero completamente rivestito da una complessa armatura di acciaio, il braccio sinistro abbandonato lungo il fianco, mentre la mano destra regge un oggetto allungato. Per il modo che viene impugnata potrebbe essere una mazza ferrata. Questo santo guerriero potrebbe essere san Giorgio o san Michele, entrambi molto venerati dai fedeli di questo territorio. (Cfr. Chiesa di San Giorgio a Mondonico- Dorio, di Varenna e di Mandello).

Nel riquadro sinistro sono visibili ancora due personaggi, uno acefalo indossa una severa veste scura e porta una banda obliqua che gli attraverso il petto. Esso stringe nella mano destra la mano destra di un giovane, di piccola statura, viso imberbe, dai lunghi capelli e da una elegante veste. Questi dettagli indicano che il soggetto appartiene a una posizione sociale signorile. Il personaggio adulto sembra che stringa nella mano sinistra dei ferri, i ceppi, cioè della antiche manette. È possibile ipotizzare che si tratti di san Leonardo protettore dei carcerati a cui venne anche dedicato il tempietto in località Castello di Dervio.

Aspetto teologico
L’allattamento costituisce uno degli elementi che maggiormente caratterizzano la maternità quasi un prolungamento della concezione. Il Nuovo Testamento non fa accenno a questo aspetto umano, ma la tradizione cristiana dopo la definizione dei dogmi mariani ha incentivato questa particolare devozione alla Madonna. Solamente durante la Controriforma si è ritenuto l’atto dell’allattamento come poco conveniente e in quel periodo si intervenne su molte immagini della Virgo lactis per coprire il seno.

Aspetto etnografico
Questa devozione era molto diffusa in Lombardia e, in particolare sul nostro territorio. Si veda per esempio l’affresco 1434 nella chiesetta di Debbio (Mandello) che rappresenta una Madonna che allatta seduta in trono, ricoperto da un drappo rosso; tiene il Bambino Gesù con la destra, mentre nell’altra mano ha un rametto di rose. Sul nostro territorio vi era la consuetudine fare benedire i bambini e le madri davanti a questa immagine. Occorre ricordare che per le condizioni igieniche l’allattamento nei tempi passati era sempre a rischio di malattie infettive per la donna. Da lì la grande devozione verso questa Madonna.

Roberto Pozzi

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Chiesa di Corenno Plinio: Affresco “L’Adorazione dei Magi”

sabato, Gennaio 28, 2012 @ 07:01 PM
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Chiesa di Corenno Plinio: Affresco "Epifania"

Il secondo affresco trecentesco riporta all’attenzione del fedele il racconto evangelico dell’Adorazione dei Magi. Si trova sulla parete laterale verso nord, presso l’attacco con il presbiterio. Il muro si piega verso un’angolazione già riferibile alla precedente soluzione absidale, anteriormente al momento della demolizione e al rifacimento barocco delle murature, nella zona orientale della chiesa. L’intonaco policromo di questo riquadro venne in una fase successiva ricoperto con uno strato di affreschi, databili al XV secolo, di cui rimangono cospicui avanzi nella parte inferiore. Resta quindi un fatto inspiegabile come mai a così breve distanza di tempo si sia effettuato questo rifacimento sull’affresco in esame. Nella parte inferiore è stato riscoperto un modesto avanzo di fregio a fogliami vegetali come nell’affresco precedentemente commentato. Tale dettaglio potrebbe confermare non solo la contemporaneità dell’esecuzione per i due grandi affreschi, ma probabilmente anche il medesimo autore delle due opere.

Osservando con attenzione la Madonna e ricordando che siamo nel Trecento, si può intravedere un modo nuovo di intendere la donna rispetto al passato, così come la stavano presentando i poeti dell’epoca (Dante e Petrarca) e i pittori (Simone Martini e Giotto). La sua posizione, per quanto statuaria, mostra una figura mossa, con il capo rivolto verso i due magi. La rigidità delle rappresentazioni di un tempo è superata anche nella figura del Bambino, molto vivace, che cerca quasi di fuggire dalle mani della Madre per avvicinarsi ai magi mentre tende la destra benedicente. La Madonna è seduta di fronte ai fedeli che la venerano, ma lo sguardo è rivolto verso i due re che rendono omaggio al fanciullo. Da notare la linea obliqua che parte dalla testa della Madonna va alla testa del re anziano e poi risale a quella testa del re giovane in piedi che crea un triangolo. Nella parte mancante dell’affresco certamente era rappresentato il terzo re, quello con la pelle nera. Infatti questi magi, secondo le tradizioni posteriori al vangelo di Matteo, provenivano da popoli appartenenti alle tre razze conosciute e rappresentavano l’umanità intera, “tutte la nazioni della terra”, come dice la Bibbia.

Nella parte superiore dell’affresco a fianco del trono brilla la stella, una semplice stella davidica a cinque punte. Il nostro pittore desidera rappresentare ai fedeli la scena descritta dal vangelo di Matteo, l’unico che riporta, parlando dell’infanzia di Gesù, l’episodio dell’adorazione dei magi, (cfr. approf. 1). Il racconto in sé è una rielaborazione teologica di testi e di avvenimenti dell’Antico Testamento per affermare, in coerenza con il resto del suo Vangelo, che Gesù è il vero Messia venuto a salvare tutti gli uomini e non solo gli Israeliti. Il pittore va oltre il racconto evangelico e si avvale anche delle tradizioni popolari dei vangeli apocrifi (cfr. approf. 2). Matteo non menziona, infatti, il numero dei magi, non riporta i loro nomi e nemmeno afferma che siano re. Per lui sono magi-astrologi rappresentanti di popoli orientali non appartenenti al popolo eletto. La scena è fissa sul momento in cui la stella a Bethlemme si è fermata sopra il luogo dove si trovava il fanciullo (paidion). Sono ormai trascorsi due anni dalla nascita. I magi entrano nella casa, vedono il bambino con Maria, sua madre, gli rendono omaggio con una prostrazione, aprono i loro scrigni e gli offrono in dono oro, incenso e mirra. L’oro indica la regalità del Cristo mentre gli altri due doni che sono resine vegetali: la prima simbolizza la divinità e la seconda, utilizzata anche per le imbalsamazioni, quindi fa riferimento alla morte redentrice del messia. Nella casa, di cui si intravede nell’affresco il soffitto riccamente adornato, si erge un trono stupendamente decorato dove Maria, una giovane donna elegantemente vestita mostra il bambino in piedi sulle ginocchia. Il primo re ad inginocchiarsi in atto di adorazione è il più anziano. Secondo la tradizione, è caratterizzato dalla barba bianca e porge il suo “scrigno” stranamente a forma di reliquiario a baciare. Dietro a lui è in attesa il secondo mago molto più giovane: è in piedi e mostra con il lungo indice il suo scrigno a forma di reliquiario a cassetta. La sagoma dei due scrigni a forma di reliquiari riflette la vasta diffusione e la forte venerazione tipica del medioevo nei confronti delle reliquie. Il reliquiario quindi diventa il miglior contenitore per i regali da offrire a Gesù. (cfr. approf. 3) Si osservi una serie di dettagli dell’affresco:

  • La Madonna è assisa come una matrona o regina su un fastoso trono. Presenta una capigliatura gonfia e signorile, parzialmente coperta dal mantello orlato di pelliccia di ermellino che in qualche modo ci riporta alla memoria il “maphorion” bizantino. Sotto il mantello blu indossa una veste rossa con un colletto bianco abbellito da pietre preziose. È possibile vedere nel blu il simbolismo della divinità e nel colore rosso quello dell’umanità. Maria è infatti la donna “elevata” al stato divino, in quanto ripiena dello Spirito Santo e madre di Dio. Le decorazioni a rilievo in stucco applicate sulle diversi parti delle vesti di Maria, rivelano la presenza originaria di pietre preziose. Le aureole sia della madre che del figlio sono entrambe applicate in stucco a rilievo raggiato, con l’inserimento di altre semisferule. All’osservare la Madonna il visitatore percepisce una certa freddezza nello sguardo attonito, ma al contempo ha l’impressione che lei stia compiendo il gesto solenne di presentare orgogliosa il suo figlio non solo ai magi ma a tutti i fedeli che l’ammirano. Il pittore l’ha voluta rappresentare come una donna giovane elevata alla dignità di grande castellana e di mediatrice tra il cielo e la terra.
  • Il bambino riccioluto e biondo, ritto in piedi, si protende in avanti con tre dita della mano destra in atto di benedizione. Indossa una veste bianca con ricche bordature. Il suo gesto riconferma la volontà dei magi di riconoscere in lui il messia di Israele e il salvatore di tutti gli uomini.
  • I due personaggi in atto di adorazione, nell’interpretazione dei vangeli apocrifi, ostentano i segni della ricchezza e della regalità tipici dell’epoca medioevale: entrambi indossano un manto rosso foderato con pelliccia di ermellino bianco, simboli del potere. Da notare la suntuosità delle vesti dei magi, la veste con tunica a manica svasata con spacco e i guanti legati al polso secondo la moda di quel tempo. Il gesto del re genuflesso che tiene nella mano sinistra la corona deposta in segno di rispetto, come se si trattasse di un cappello, costituisce l’atteggiamento comune per indicare la sottomissione del vassallo al suo signore.
  • La stella che al suo sorgere annunciò l’evento della nascita di un personaggio straordinario e alla fine indicò il luogo dove si trovava Gesù è collocata al centro della scena. Certamente questi magi dell’oriente erano anche astrologi e sapevano interpretare i segni del cielo. Matteo introduce questo elemento nel suo racconto con una chiara allusione alla visione di Balaam nel libro dei Numeri (Num. 24,17). Si tratta quindi della stella davidica che sorge da Giacobbe. Anche i lettori di Matteo con un retroterra culturale greco-romano non avrebbero trovato strano un racconto in cui la nascita del re dei Giudei fosse annunciata da una stella, infatti sono numerose le testimonianze classiche nelle quali dei corpi celesti presagivano la venuta di grandi uomini o avvenimenti eccezionali. (cfr. approf. 4)

Significato teologico
L’autore intende raffigurare l’evento riportato dall’evangelista Matteo nel capitolo secondo del suo vangelo. I magi che provengono dall’oriente e che rappresentano i gentili, ricevono la rivelazione di Dio attraverso un fenomeno naturale, cioè una stella. Per gli ebrei, invece, c’erano le Sacre Scritture che preannunciavano la venuta del Messia. All’omaggio dei magi si contrappone il rifiuto del re Erode e dei sacerdoti e notabili di Gerusalemme e la loro intenzione di eliminare Gesù. Per i giudei convertiti della comunità cristiana a cui è rivolto il vangelo erano chiare le reminiscenze del neonato Mosè perseguitato dal Faraone, mentre per i convertiti dal paganesimo si riproponeva il costante conflitto che ripercorre tutta la vita di Gesù tra gli ebrei che non riconobbero il Messia e i non-giudei che invece accettarono il messaggio cristiano. Per Matteo la presenza di gentili in seno alla sua comunità in Siria non era la conseguenza del fallimento del piano di Dio in favore di Israele, bensì la continuità e il compimento di un piano di salvezza per coloro che venivano da lontano, piano che avrebbe trovato la sua realizzazione per mezzo del Salvatore di tutta l’umanità.

Il soggetto della Vergine in trono vuole raffigurare un’altra verità teologica: Maria è madre di Dio, secondo il dogma confermato dal Concilio di Efeso del 431. Lei presenta ai magi, ma anche alla comunità dei fedeli, il Bambino che è il Salvatore del mondo. In lei si manifesta il privilegio massimo della Grazia, diventando madre di Dio (Theotocos).

Aspetto etnografico
Nell’affresco ci si aspetterebbe di trovare i tradizionali cammelli usati dai magi per raggiungere prima Gerusalemme e poi Bethlemme. Forse il pittore non li aveva mai visti e quindi avrebbe fatto fatica a riprodurli. Anche il vangelo canonico non ne fa cenno, solamente vengono citati nelle profezie che parlano dell’arrivo di re orientali a Gerusalemme. Il popolo però non li ha dimenticati e li ha introdotti nei racconti e nelle tradizioni natalizie. A Corenno come negli altri paesi del lago, in occasione dell’Epifania e non del Natale, si lasciavano durante la notte che precede il 6 gennaio i regali per i bambini. Pur nella povertà, quelle famiglie riconoscevano che alla stregua del Bambin Gesù che aveva ricevuto i doni dai re anche i loro piccoli dovevano gioire la mattina dell’Epifania davanti a semplici regali: caramelle, frutta secca e qualche mandarino. Ai bambini si raccomandava di mettere del fieno sui davanzali delle finestre per i cammelli (“gli animali dalle gambe lunghe”), perché sarebbero passati i re magi a depositare i loro regali. Da notare il parallelismo tra il gesto dei magi nei confronti di Gesù e il gesto dei genitori verso i figli più piccoli.

Giudizio estetico
L’esecuzione della scena dell’Adorazione dei re magi si presenta con caratteri stilistici e tecnici obiettivamente assai prossimi a quelli del vescovo e degli apostoli. Però manifesta tuttavia una vivacità descrittiva e un’interessante resa dei particolari che non era presente nell’altro affresco. Il dipinto presenta una migliore esplicazione descrittiva che ci riporta ad un filone stilistico primo gotico: tetto della casa (stile gotico) il ricco trono decorato, le sontuose vesti di Maria e di Gesù Bambino. C’è un lontano richiamo alla pittura giottesca che “compiace all’intelletto dei savi a differenza dell’arte precedente che è intesa a dilettar gli occhi degli ignoranti”. (G. Boccaccio) La figura della Madonna è maestosa e ieratica. Si può ancora intravedere un non so che di bizantino nella posizione immobile della figura. Ci troviamo nel momento di passaggio dalla rappresentazione astorica del Divino (e tra essi la Madonna in trono) a quella storica, cioè il personaggio è contestualizzato in un evento storico, in questo caso l’adorazione dei magi. Questa modalità sarà tipica del periodo gotico, primi fra tutti per opera di Giotto. Si notano però nel nostro affresco il superamento degli schemi bizantini e l’apertura verso una rappresentazione che introduceva il senso dello spazio, del volume e del colore anticipando i valori dell’età umanista. Il visitatore può stabile un confronto e notare l’evoluzione dalla presentazione della Madonna in trono nell’adorazione dei magi a quella della Madonna del latte dipinta sotto la prima e all’affresco del 1538 in cui la Vergine assume fattezze più umane.

Roberto Pozzi

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Chiesa di Corenno Plinio: Affresco “Il vescovo e i cinque apostoli”

sabato, Gennaio 28, 2012 @ 06:01 PM
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Chiesa di Corenno Plinio: particolare affresco "il Vescovo e i 5 apostoli"Varcata l’entrata della chiesa, sulla parete di destra, il visitatore odierno, come il devoto medioevale, si ritrova la figura di un santo vescovo. L’affresco è trecentesco, uno dei più antichi della chiesa. Si tratta di una pittura ancora arcaica con reminiscenze romaniche e forse anche bizantine. Il santo con il capo coronato da aureola, indossa i tipici paramenti vescovili delle celebrazioni liturgiche: la mitra in testa, la mano destra guantata benedicente mentre con la sinistra sorregge pastorale, segno del potere sul suo gregge. Da notare l’elegante ricciolo gemmato e il drappo bianco e rosso che adornano il baculo. La figura del vescovo è rinchiusa da entrambi i lati da un cornice composta da una semplice banda bicroma a spina di pesce.
La fisionomia del personaggio ricorda quella di sant’Ambrogio, arcivescovo della chiesa milanese, ma siccome l’immagine è priva del segno identificativo di questo santo, cioè lo staffile con cui combatte i nemici della chiesa, si potrebbe ipotizzare che si tratti di san Tommaso di Canterbury a cui è dedicata la chiesa. Occorre ricordare che quando venne dipinto l’affresco, il vescovo non era solo capo religioso della comunità cristiana, ma rappresentava anche la suprema autorità politica. Infatti il territorio di Corenno era stato infeudato alla famiglia Andreani nel 1271 da Ottone Visconti vescovo di Milano. Nel proemio degli Statuti Comunali di Dervio e Corenno nella loro ultima edizione del 1389 si afferma che questi territori “appartengono alla giurisdizione della Santa Chiesa Arcivescovile di Milano”.
Accanto al vescovo in un’altra cornice si presenta al fedele la teoria degli apostoli tra cui è riconoscibile solo san Bartolomeo che impugna un coltello, lo strumento del suo martirio. Infatti, secondo la tradizione, morì scorticato. Nell’affresco del Giudizio universale, Michelangelo lo presenta invece con la pelle pendente dal braccio come fosse un impermeabile. Manca più della metà dell’affresco sulla sinistra, rispetto all’osservatore. La perdita è dovuta allo sfondamento della parete meridionale, quasi nella parte centrale, effettuato in epoca barocca per ricavare una cappella dedicata alla Madonna.
Chiesa di Corenno Plinio: affresco "il Vescovo e i 5 apostoli"I cinque apostoli sono raffigurati in una perfetta frontalità, pochi particolari li differenziano gli uni dagli altri e tutti reggono un cartiglio su cui probabilmente era scritto il loro nome. La figure sono inserite entro una cornice dai lati differenti. Quella superiore contiene entro bande orizzontali una sequenza alternativa di scudi araldici e di rettangoli entro cui scorre una fascia multicolore a strette ondulazioni. Gli scudi araldici potrebbero appartenere ai componenti della famiglia feudataria degli Andreani. Il coronamento inferiore è determinato da un fregio a gonfi e grandi fogliami e girali fitoformi, di disegno piuttosto elegante. Lo stesso elemento ornamentale si riscontra anche come delimitazione inferiore, sia pure in tracce, ma ancora leggibili, nell’affresco dell’Adorazione dei Magi. Probabilmente i due riquadri affrescati sono da considerarsi coevi.

Significato teologico
Attraverso questo affresco la Chiesa ha voluto ribadire al fedele che è fondata sugli apostoli come afferma nel credo niceno. Il loro culto si diffuse rapidamente anche se di loro sono scarse le notizie storiche. Certamente l’apostolo più importante è san Pietro a cui era dedicata la pieve di appartenenza della parrocchia di Corenno. Tra gli apostoli c’erano alcuni protettori tra cui il più importante era appunto Pietro, il pescatore e san Bartolomeo protettore dei macellai.

Giudizio estetico
L’affresco è stato rimaneggiato, completato e ricostruito. L’opera non pare di grande pregio: le figure sono appiattite, i dettagli anatomici sproporzionati; basti osservare la forma e la dislocazione dei piedi o le orecchie a sventola. Tuttavia l’insieme non è privo di una certa vivacità sottolineata dai fregi nelle cornici, mentre la concezione generale si può collegare a una tradizione figurativa ancora di reminiscenze romaniche. Si deve tuttavia sottolineare lo sviluppo verticalizzante delle figure e lo svuotamento di ogni dettaglio emotivamente partecipativo, tipico di questo periodo di transizione dal romanico al gotico. Da notare l’uso delle aureole a rilievo, l’utilizzazione ormai stabilita di stemmi lungo le cornici degli affreschi e il tipo di fregi che incorniciano i riquadri.

Roberto Pozzi

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Corenno Plinio: Gli affreschi della chiesa di San Tommaso di Canterbury

sabato, Gennaio 28, 2012 @ 06:01 PM
aggiunto da admin

Gli affreschi nelle chiese non costituiscono un elemento decorativo, come potrebbe sembrare a noi che li ammiriamo oggi. Essi sono stati dipinti per diventare oggetto concreto a cui rivolgere un’invocazione di protezione o una preghiera di ringraziamento. Raffigurano la “storia” della divinità e dei santi per raccontare al credente le realtà invisibili. Oltre alle credenze, ci parlano anche delle ansie, delle paure e delle speranze della comunità, del senso che essa attribuiva alla vita. Per comprendere il loro messaggio occorre mettersi nell’ottica del “vicinus” del borgo medioevale in termini civili e del fedele in termini religiosi per il quale sono stati realizzati.

Dal punto di vista storico, gli affreschi della chiesa di san Tommaso di Canterbury coprono un arco di tre o quattro secoli e costituiscono una testimonianza visiva della vita religiosa e devozionale degli abitanti di quel periodo. Allo stesso tempo offrono elementi significativi per comprendere parte della cultura di quella gente, cioè il cosiddetto immaginario collettivo di una comunità in un preciso momento della sua storia.

Il Vescovo e i 5 Apostoli
L’Epifania
La Madonna del Latte e i Santi
San Cristoforo e San Francesco
Il supplizio di Santa Apollonia e San Gottardo
La Madonna in trono tra San Rocco e San Sebastiano
L’Adorazione dei Magi

Roberto Pozzi

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Corenno Plinio: Le Arche Andreani

sabato, Gennaio 28, 2012 @ 04:01 PM
aggiunto da admin

Introduzione

Fino al 1820, sul sagrato della chiesa di san Tommaso di Canterbury sorgeva il piccolo cimitero della comunità, come era consuetudine dei paesi cristiani prima che le leggi napoleoniche obbligassero a costruirli lontano dai nuclei abitati. In quella data venne spostato sul dosso della montagna dove si trova attualmente. Davanti alla chiesa sono rimasti solo i tre grandiosi monumenti funebri della famiglia dei conti Andreani: i primi due collocati ai lati del portale, il terzo addossato alle mura del castello.

Chiesa di Corenno Plinio

Queste tombe costituiscono una particolarità del borgo di Corenno Plinio dato che non si riscontrano altri esempi sul territorio lariano. Meritano di essere messe in risalto perché, da una parte rappresentano un indiscusso documento storico che attesta l’importanza dell’illustre casata degli Andreani su questo ramo del lago, dall’altro offrono tre diverse tipologie di sepolture che si collocano cronologicamente in un breve arco di tempo: con buona probabilità tra l’inizio del XIV secolo ed il terzo quarto del medesimo secolo. Quindi si può rilevare come nel giro di poco più di cinquant’anni cambia il gusto artistico dei signori di Corenno: si passa dal sobrio e possente stile romanico a quello più leggero e decorativo del gotico con la preminenza della verticalità e, in seguito, a un gotico ancor più ricco ed elaborato, comunemente denominato gotico fiorito. La piazzola del piccolo borgo conserva quindi una preziosa sintesi dell’evoluzione dell’arte verificata in quei secoli su scala nazionale.

Queste tombe signorili con baldacchino in pietra si rifanno architettonicamente ai sarcofagi monumentali di origine orientale. Questa moda venne ripresa dai romani e da essi passò al mondo cristiano. Tale tipologia di sepolcro poteva sorgere isolato, come negli esempi più noti delle tombe dei glossatori dell’università di Bologna, dell’Antenore di Padova, dei Doria sotto il convento di san Fruttuoso o in quelle, più note e più tarde rispetto agli esempi di Corenno, degli Scaligeri a Verona. Poteva anche essere accostato a una parete come nel caso di Corenno e in quello dei sarcofagi dell’abbazia di Chiaravalle a Milano.

I tre sarcofagi presentano caratteristiche comuni: su ognuna è presente in forma preminente e centrale il Cristo benedicente nella prima, il Cristo morto nelle altre due. Vi è una linea di continuità tematica anche se cambia lo stile. Il Cristo poggia su una nuvola in una di esse e su foglie di acanto distese o accartocciate nelle altre. In tutte sovrasta lo stemma araldico della famiglia Andreani. La continuità si rileva anche nel basamento del sarcofago costituito dall’alternanza di marmi bianchi e neri.

Di scarso valore artistico ma fondamentale per la stratigrafia sono i quattro/cinque gradini inferiori della scalea di accesso alle arche e alla chiesa in granito di San Fedelino e non in serizzo come i successivi. Questo sta ad indicare inequivocabilmente l’originale livello che ebbe l’antico camposanto. L’ipotesi è confermata anche dal ritrovamento del rilievo-progetto dei predetti lavori al cimitero.

La prima arca
Corenno Plinio - Arca Andreani 1L’arca più antica si trova a destra del portale della chiesa addossata alla facciata. Secondo alcuni studiosi era il sepolcro di quello Jacobo Andriani o di suo padre al quale fu confermato il feudo nel 1271 dall’arcivescovo di Milano Ottone Visconti, e che probabilmente morì nel 1326. Sulla parte di fondo è murata una lapide a ricordo della sepoltura di Giovanni Maria Andriani deceduto nel 1774 all’età di 76 anni; ciò testimonia che gli Andreani continuarono per alcuni secoli a seppellire i loro cari in questo sepolcro di famiglia.
Il sepolcro presenta in miniatura le caratteristiche di una chiesa di stile romanico con il tetto a capanna con due spioventi, la volta a botte e l’arco a tutto sesto, cioè l’arco costituito da un semicerchio regolare che poggia sull’imponente sarcofago di base. Il tetto è coperto da locali beole (piode). L’imponente sarcofago di base è una costruzione solida e massiccia, ma anche armoniosa. L’edificio complessivo è alleggerito dalle colonnine binate, ornate da capitelli con curiose decorazioni raffiguranti volti simili a quelli che si ammirano sui capitelli del chiostro dell’abbazia di Piona o dei numerosi edifici romanici del Lario. Nella seconda fila di capitelli la decorazione è a fogliame. Nella terza ricorrono tutti i temi della prima. Il volto dei personaggi presenta diverse espressioni e tutti indossano un cappuccio. Secondo alcuni studiosi, ogni figura rappresenta una nota musicale e nel loro insieme il motivo di qualche inno o antifona gregoriana. Dal punto di vista cromatico il monumento è caratterizzato dall’alternanza di conci di marmo bianco di Musso e di calcare serpentinoso nero, frequente nel comasco fin dal Duecento. Il sapore della costruzione è ancora fortemente romanico.

Sulla chiave di volta dell’arco sporge un bassorilievo che rappresenta un Cristo ieratico e maestoso che benedice con le due dita della mano destra alzate mentre con la mano sinistra regge il libro aperto della sua Parola. Il Cristo poggia su una corona di foglie di acanto accartocciate per indicare simbolicamente la sua morte. Alle estremità superiori sono presenti due stemmi affrontati della famiglia Andriani: il leone rampante a destra e il castello turrito a sinistra.

La seconda arca
Corenno Plinio - Arca Andreani 2La seconda arca è posta a sinistra dell’ingresso della chiesa in simmetria rispetto alla prima. Si caratterizza per un’architettura che ha il suo svolgimento in verticale come nelle chiese gotiche francesi e poi italiane. Presenta la tipica apertura di un arco a ogiva, a sesto acuto. L’intradosso dell’arco gotico è riccamente decorato con un mirabile ricamo marmoreo ad archi trilobati, una raffinata opera di scalpello. Esso costituisce un’elegante espressione del gotico lombardo. L’accostamento delle quattro colonnine richiama, si potrebbe dire in miniatura, i piloni a fascio delle maestose cattedrali.

Sul profilo sommitale del baldacchino dell’arca si erge una statua del Cristo crocifisso affiancato da altre due: dell’angelo Gabriele e di Maria che rievocano la scena dell’Annunciazione. Sullo spiovente di sinistra si presenta inginocchiato in segno di devozione e di riverenza l’angelo Gabriele rivolto verso la Madonna posta sullo spiovente opposto per annunciarle che diventerà madre di un bimbo il cui nome sarà Gesù. L’angelo, con i cappelli raccolti in una treccia attorno al capo, è rivestito da un ricco manto e, a differenza dell’iconografia abituale, non possiede le ali. Regge nella mano sinistra una fiaccola per indicare che viene a proclamare la venuta di Gesù, luce del mondo, o chissà, in una interpretazione più azzardata, il fuoco dello Spirito Santo che adombrerà Maria per generare in lei il figlio di Dio. La Madonna è in piedi rivolta verso la piazza, cioè verso la gente che l’ammira e la prega. Ha la testa coperta da un velo ed indossa un ampio mantello sopra la lunga veste. Appoggia la mano destra sul petto per dimostrare il suo turbamento all’ascolto delle parole dell’angelo che affermano che Dio l’ha scelta per quella nobile missione. Con la sinistra si cinge il grembo nell’atto di accogliere amorevolmente in lei il figlio Gesù, quasi stesse sussurrando: “Ecco l’ancella del Signore”.

Al centro sulla cuspide si erge la figura di Gesù crocifisso non su due pali, ma su una croce con una raffinata foggia di albero della vita. L’albero fiorito richiama il “Lignum vitae”, la croce che fiorisce a Pasqua. Ciò sta ad indicare che Cristo morto, dopo tre giorni risuscita. L’albero fiorito diventa il simbolo della sua risurrezione dopo la morte invernale. Vi è qui simboleggiata tutta la tradizione dell’Albero del Paradiso terreste che rinasce con la nuova umanità con la morte di Cristo, proprio sul Golgota, il colle dove secondo la tradizione era stato sepolto Adamo. Calvario (dal latino Calvaria che significa “luogo del cranio”) è il nome della collinetta appena fuori Gerusalemme su cui, secondo la narrazione dei vangeli, salì Gesù per esservi crocifisso. Il luogo è anche detto Golgota (dall’aramaico Gûlgaltâ con il medesimo significato di “luogo del cranio”). Origene nel III secolo riteneva che il Golgota fosse il luogo della sepoltura di Adamo: questo fatto simbolicamente ribadiva il ruolo di Gesù come “nuovo Adamo”, fondatore della nuova umanità redenta (cfr. 1 Corinzi 15,21-22). Per questo motivo, nelle rappresentazioni della crocefissione, ai piedi della Croce è spesso raffigurato il teschio di Adamo. L’albero potrebbe anche simbolizzare “l’Albero di Iesse”, una rappresentazione diffusa nel Medioevo, soprattutto negli affreschi, per sottolineare la discendenza del Messia riportata nel vangelo di Luca, che fa risalire Gesù a Davide, ad Abramo e al primo uomo Adamo.

Appena sopra l’arco si osserva il bassorilievo di un Cristo defunto su foglie di acanto dispiegate che indicano nel cristianesimo primitivo la risurrezione. Notiamo come la figura di Cristo nell’arte del Trecento viene storicizzata. Si presenta la sua morte, non più un simbolo come nell’arte paleocristiana. Le foglie di acanto furono adottate nell’architettura cristiana, nei capitelli gallo-romani e nei monumenti sepolcrali, per simboleggiare la resurrezione. È un simbolismo usato anche per i capitelli nel coro delle chiese dove si custodivano le reliquie dei santi ai quali era promessa la resurrezione. La cornice sotto la figura di Cristo morto è costituita dall’acanto: le foglie spinose e pungenti del cardo lasciano lo spazio alle foglie di acanto senza spine: la risurrezione di Cristo trasforma le spine in fiori. Il Cristo giace in una grande conchiglia, simbolo nelle culture orientali della divinità. Alle estremità del tempietto troneggiano gli stemmi Andriani posti a specchio.

All’interno dell’edicola si trovano due formelle contrapposte con la rappresentazione dell’angelo (o uomo alato) e dell’aquila, simboli dei vangeli di Matteo e di Giovanni. Mentre le due colonnine binate poggiano sul vitello alato e sul leone alato che ripropongono i simboli degli altri due evangelisti: Luca per il vitello e Marco per il leone. I quattro evangelisti sono raffigurati sull’arca, ciascuno con il libro del vangelo aperto.

All’interno dell’edicola si trova sarcofago vero e proprio dove si deponeva la salma del defunto. Sulla sua parte anteriore è stato scolpito un bassorilievo con cinque figure: al centro spicca la Madonna in trono con Gesù in grembo attorniata da due angioletti che sorreggono il manto; ai lati san Giovanni Battista con l’agnello posto nella mano sinistra (ricorda l’episodio in cui indica Gesù chiamandolo “agnello di Dio”), e un santo vescovo (probabilmente san Tommaso di Canturbery, o il san Gottardo rappresentato negli affreschi dell’interno). All’estremità di sinistra per chi guarda c’è san Pietro che regge le due chiavi del regno celeste e il libro delle scritture e, a quella destra, santa Caterina di Alessandria con la palma del martirio e la ruota con cui venne dilaniato il suo corpo. La santa poggia il capo in una nicchia sormontata da una corona di foglie. Da notare anche il fine legaccio del mantello e le pieghe del vestito. Il basamento del sepolcro ripropone l’alternanza delle fasce nere con la fascia bianca di marmo.

Figurativamente, attraverso l’Annunciazione dell’angelo a Maria e la Crocifissione di Gesù su un albero fiorito è rappresentato tutto l’arco della vita terrena di Cristo e la sua missione nel mondo. Le tre statue collocate sulla sommità del sepolcro trasmettono ai fedeli che le venerano il grande messaggio (kerigma cristiano) che Gesù fattosi uomo, morto sulla croce e risorto è venuto a portare la vita a tutti gli uomini. Sono solo tre statue, in alto invisibili al passeggero distratto ma non così per il fedele medioevale che ogni mezzogiorno recitava l’Angelus, magari nel cimitero antistante la chiesa. Le tre statue rappresentano per il cristiano tutto il dramma della storia della Salvezza: dall’incarnazione alla passione, morte e risurrezione di Gesù. Il Cristo risorto annuncia la speranza nella nuova vita.

La terza arca
Corenno Plinio - Arca Andreani 3La terza arca è addossata alle mura meridionali del castello. Secondo alcune testimonianze, fino al XIX secolo si trovava all’interno della Chiesa. Fu spostata all’esterno per la sistemazione dell’organo solo nel 1870, come rammenta una lapide posta sulla piazza in concomitanza allo spostamento del cimitero. (2)
La struttura dell’arca differisce decisamente dalle precedenti, perché è stata concepita come un dossale privo di profondità per l’interno della chiesa. Doveva, infatti, occupare uno spazio limitato. Perciò è più appiattita sulla parete delle altre due. È stata progettata e realizzata come ossario, in stile gotico, capace di accogliere i resti delle antiche sepolture cimiteriali della famiglia Andreani. Si sviluppa prevalentemente in verticale con un doppio ordine di colonnine binate a sostegno del fregio polilobato e con nicchie angolari a pinnacolo. Nella parte superiore domina un bassorilievo di un Cristo morto posto al di sopra dello stemma della famiglia Andriani. Nella fascia centrale risaltano i simboli dei quattro evangelisti: l’Aquila per san Giovanni, l’uomo per san Matteo, il vitello per san Luca e il leone per san Marco. Sono raffigurati come nella seconda arca, ma differiscono in un particolare: reggono il libro del loro vangelo chiuso. I simboli degli evangelisti sono sormontati da un iscrizione in latino incisa sulla sottile fascia superiore che identifica la realizzazione nel 1371 da Stefano Andriani, figlio di Baldassarre. (3) Al di sotto fu posta una lapide nel 1771 a ricordo di alcuni restauri. (4)

 

I Simboli degli evangelisti

In realtà c’è un solo Vangelo, ma il lieto annuncio è giunto a noi redatto da quattro evangelisti. È la Sacra Quadriga, il misterioso cocchio di Dio, condotto – secondo una visione del profeta Ezechiele, ripresa dall’Apocalisse – da quattro “esseri viventi” che avevano sembianza di uomo, di leone, di bove e di aquila. Gli antichi autori cristiani applicarono agli evangelisti le simboliche sembianze della profezia, riconoscendo nel Vangelo il nuovo trono di Dio.

Matteo fu simboleggiato nell’uomo alato (o angelo, tutte le figure sono infatti alate), perché il suo Vangelo inizia con l’elenco degli uomini antenati di Gesù Messia ed è quello che mette più in risalto l’umanità del Cristo (il Figlio dell’Uomo, come viene spesso indicato). Il testo esordisce con la discendenza di Gesù e, in seguito, narra la sua infanzia, sottolineandone quindi il suo lato umano

Marco fu simboleggiato nel leone, perché il suo Vangelo comincia con la predicazione di Giovanni Battista nel deserto, dove c’erano anche bestie selvatiche. Nel Vangelo di Marco viene maggiormente indicata la regalità, la forza, la maestà del Cristo: in particolare i numerosi miracoli accentuano l’aspetto secondo cui Cristo vince il male. Inoltre è proprio questo Vangelo che narra della voce di San Giovanni Battista che, nel deserto, si eleva simile a un ruggito (di un leone, appunto), preannunciando agli uomini la venuta del Cristo. Si veda anche “Vox clamantis in deserto”.

Luca fu simboleggiato nel bue, perché il suo Vangelo comincia con la visione di Zaccaria nel tempio, ove si sacrificavano animali come buoi e pecore. Il bue o il vitello, simbolo di tenerezza, dolcezza e mansuetudine, caratteri distintivi di questo Vangelo per descrizione e teologia.

Giovanni fu simboleggiato nell’aquila, l’occhio che fissa il sole, perché il suo Vangelo si apre con la contemplazione di Gesù-Dio: “In principio era il Verbo…” (Gv 1,1). Il suo Vangelo infatti ha una visione maggiormente teologica, e quindi è quello che ha la vista più acuta. L’aquila è quello che vola più in alto di tutti gli esseri e che, unico fra tutti, può vedere il sole con gli occhi senza accecarsi, ossia vedere verso i cieli e verso l’Assoluto, verso Dio. Il Vangelo di Giovanni infatti si apre con parole di forte carica trascendente: “In principio era il Verbo, il Verbo era presso Dio e il Verbo era Dio.” (Gv. 1,1)

Note

(1) MEMORIAE ET QVIETI / IOAN MARII ANDREANI COMITIS / ET PATRICII MEDIOLANENSIS / CVRATORIS REGII FINIVM INSVB. AVSTR. / QVI OB DEXTERITATEM ET FIDEM / IN MAGNIS ARDVISQVE NEGOTIIS / A RE PVB GERENDIS / GRATIOSVS PATRIAE PROBATISSIMVS PRINCIPI / VIX. AN. LXXVI / CORENNI DIEM SVVM PIE FVNCTVS / XI KAL. OCT. AN. MDCCLXXIV / IN AVITVM SEPVLCRVM IN LATVS EST / IOAN. MARIVS PETRI PAVLLI SENATORIS F. / HERES EIVS EX BESSE / PATRVO AMANTISSIMO / ET OPTIME DE SE MERITO / PARENTALIA IN PERPETVVM QVOT ANNIS / CELEBRANDA INSTITVIT P C

(2)Secondo alcuni atti di san Carlo del 1583, l’arca si trovava già allora all’esterno.

(3) + IN NOMINE DOMINI AMEN ANNO CHRISTI MCCCLXXI HOC OPVS FIERI FECIT STEPHANVS FILIVS QVONDAM DOMINI BALZARI DE ANDRIANIS DE BVRGO CORENI DIOCESIS MEDIOLANI

(4) D.O.M. / SEPVLCRVM MAIORVM / CCCC ANNORVM VETVSTATE DETRITVM / TVM SIBI TVM PAULLO SENATORI / HIERONYMO PROTOPHYS. / ET PETRO FRATRIBVS OPTIMIS / NECNON FILIIS EORVMQVE POSTERIS / HAEREDITARIO IVRE / COMES IO. MARIVS ANDREANVS / MEDIOLANSIUM FINIVM PRAEFECTVS / RESTITUIT / AN. MDCCLXXI IBID. AUGUST.

Roberto Pozzi

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Corenno Plinio: La chiesa Parrocchiale

sabato, Gennaio 28, 2012 @ 03:01 PM
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Chiesa di Corenno Plinio

La chiesa parrocchiale, dedicata a san Tommaso di Canterbury, sorge lungo una via di comunicazione importante che collega Lecco con Colico attraverso la Valsassina e da Colico portava sia in Valtellina sia nei Grigioni attraverso i passi sopra Chiavenna. Si trova vicino al castello-fortificazione e quindi era probabilmente in origine una chiesa castellana come quelle di sant’Antonio abate vicino al castello di Vezio e san Leonardo vicino al castello di Orezia a Dervio, per questo motivo comunicava con la fortezza nella parte settentrionale.
Accanto al castello si era stabilita la famiglia dei conti Andreani a cui era stato infeudato il territorio, che divennero i mecenati di Corenno come succedeva nei grossi comuni di quell’epoca. Essi esercitarono un diritto di juspatronato sulla chiesa e quindi intervennero sull’evoluzione edificatoria e artistica. Il loro stemma è riprodotto a rilievo sul fronte marmoreo delle loro tombe e si ritrova ripreso su alcuni oggetti liturgici. In modo particolare è presente sopra l’affresco cinquecentesco della “Madonna in trono” sul lato meridionale. Il committente di questo affresco eseguito nell’anno 1538 è appunto Sigismondo Andreani, definito “fisicus”. Si ricorda anche un Giovanni degli Andreani “fisicus” che nel 1487 si era trasferito a Bellano.La chiesa fu edificata alla fine del XII secolo, negli anni immediatamente successivi alla morte e alla canonizzazione di san Tommaso. Il santo venne assassinato nel 1170 nella cattedrale di Canterbury dai sicari di Enrico II d’Inghilterra perché fedele al papato si opponeva alle sue ingerenze nella gestione della Chiesa locale.
corenno - stemma famiglia AndreaniIl Liber Notitiae Sanctorum Mediolani, verso il 1290 menziona una chiesa nella pieve di Dervio dedicata a San Tommaso martire morto da pochi anni. (In plebe derui, loco cortono, ecclesia sancti thome martyris). In origine la piccola chiesa legata alla famiglia del feudatario come cappella privata era anche destinata a funzioni funebri o a pratiche di devozione popolare. Le messe e i battesimi della comunità erano invece celebrati nella chiesa prepositurale di Dervio. A partire dal 1327 divenne una chiesa effettiva con un proprio cappellano, sempre legato alla famiglia Andreani. La chiesa fu riconsacrata il 3 novembre 1355.
Nel 1566 l’arcivescovo di Milano, Carlo Borromeo, nel suo progetto di riforma della chiesa ambrosiana, la trasformò in parrocchia autonoma slegandola da quella di Dervio e nominò un curato residente.

La chiesa è correttamente orientata verso est, il luogo dove sorge il sole; guadando l’altare, si ha alla sinistra il nord, ritenuto dai latini il luogo degli infedeli, verso dove si annunciava il Vangelo durante la messa prima della riforma liturgica del Vaticano II. In uno sguardo d’insieme non appare la sua antichità perché in essa si sono effettuati interventi di ristrutturazione molto rilevanti. Di origine romanica, venne ristrutturata in epoca gotica e gradualmente perse le sue caratteristiche essenziali romaniche negli elementi importanti: la facciata, la controfacciata, il presbiterio, l’abside e il campanile.

La facciata della chiesa a capanna è stata più volte manomessa, attualmente presenta un portale costruito nel 1698. Il corpo principale della navata ha conservato l’impianto originario, ma gli affreschi che si possono ammirare oggi furono nascosti per secoli a partire dal Cinquecento. Infatti, seguendo indicazioni di san Carlo Borromeo, le pareti furono più volte imbiancate come mezzo di disinfezione in periodi di pestilenza. Va rilevato che una modesta traccia dell’originaria immorsatura absidale si è conservata, presso la congiunzione con la parete laterale settentrionale, come indica anche chiaramente l’affresco dell’Epifania, che tende a curvarsi in una significativa inclinazione, prima di scomparire dietro la lesena che regge la ricaduta dell’attuale arco trionfale. È probabile che l’ampio presbiterio tardo barocco racchiuda, all’interno della sua pianta, il disegno semicircolare di un’abside romana

Tra Settecento e Ottocento la chiesa subì altri interventi: nel 1703 si ricavò una cappella laterale dedicata a san Giuseppe e un’altra dedicata alla Madonna. Quest’ultima è di stile barocco, con altare a colonne tortili in marmo nero di Varenna. Nel 1711 si eresse l’attuale campanile e si ampliò l’abside. Tra la fine Settecento e il primo Ottocento si realizzò l’altare.

Probabilmente all’origine era stata ricavata anche una cripta per la conservazione delle reliquie. Della primitiva costruzione romanica ora si possono ammirare soltanto due belle monofore nella parete verso sud; altre serie di monofore sono scomparse già in epoca gotica.

Nel 1966 un’importante opera di restauro ha portato alla luce parte degli affreschi votivi dipinti sulle pareti tra il Trecento e il Cinquecento.

Roberto Pozzi

APPROFONDIMENTI
Gli Affreschi
Le Arche Andreani

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La storia di Corenno e del suo castello

sabato, Gennaio 28, 2012 @ 03:01 PM
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Secondo gli Statuti medievali di Dervio e Corenno del 1389 le fortificazioni di Dervio che inglobavano la torre di Orezia, giungevano anche alla vicina Corenno dove sorgeva il castello-recinto con fossato, abitazioni ed una piazza dove partiva la strada per Vestreno, quindi per la Valvarrone. Della muratura che univa il castello di Corenno a quello di Dervio di Orezia non esiste più traccia, anche se probabilmente è da identificarsi con i tratti di muratura a protezione della stradina che correva a circa quota 300 da Corenno alla località Castello per poi inerpicarsi verso la Valvarrone. Purtroppo questa stupenda strada panoramica è stata travolta dagli interventi per la formazione della Statale 36 o superstrada per lo Spluga. A Corenno, come si è detto, risiedeva la famiglia Andreani, proprietaria del Castello che aveva avuto fino dal 1271 il feudo di Corenno dall’Arcivescovo di Milano Ottone Visconti. Il cognome indicava la discendenza da un Andrea, tanto che in alcuni documenti dell’inizio del Trecento viene riportato spesso come genitivo Andree. Questa famiglia non era originaria di Dervio, ma forse proveniente dai Grigioni. Alcuni storici posero l’inizio della presenza a Dervio con la conferma del feudo di Dervio, Corenno e parte del monte di Varenna redatto il 30 maggio 1271 da parte dell’Arcivescovo Ottone Visconti a favore di Jacobo Andriani detto Foxatus. Nell’atto di fondazione della Cappellania della Madonna del Rosario, però, redatto il 12 settembre 1327 si trova che un Ruggero Andriani aveva acquistato dei terreni a Corenno ed era avo di Baldassarre, figlio di Jacobo Andriani. La loro storia fu per secoli legata a Corenno, soprattutto attraverso il castello e la chiesa di san Tommaso di Canterbury e le Arche Andriani.

Nel 1039, secondo l’Arrigoni[1] Dervio, Corenno e Dorio sono alla dipendenza di Bellano. “Sulla fine della primavera la Repubblica delle Tre Pievi – Dongo Gravedona e Sorico -, posta in acqua le navi ben fornite di armi e armati, assieme ai Valtellinesi, prendono di sorpresa il paese di Dorio, e poi la flottiglia si spinge a Corenno, che trovato indifeso, occupano e saccheggiano, meno un forte sovrastante dov’eransi ritirati gli abitanti colle migliori masserizie. Il castello si arrese dopo tre giorni per mancanza di vitto e dell’aiuto dei bellanesi.” I pievesi e i Valtellinesi, per vendicarsi di un attacco subito da parte di alcuni paesi della riviera di Lecco legati al potentissimo arcivescovo di Milano, Ariberto da Intimiano, sconfissero gli abitanti di Corenno e Dervio ed entrarono in possesso del castello e del paese di Dervio, che si era arreso. Così gli abitanti, Dervio, Corenno e Dorio, dopo aver sostenuto quattro mesi di assedio e aver respinti replicati assalti, colla condizione di aver salva la vita e le masserizie cessarono di appartenere a Bellano e per alcuni anni fecero parte della repubblica pievese per cadere poi sotto il dominio dei milanesi

Nel Duecento e nel Trecento: con l’indebolimento del potere vescovile e la progressiva indipendenza dei Comuni, vi fu un periodo di grande confusione. Per la sua posizione strategica, al confine tra gli opposti interessi di Guelfi e Ghibellini, la sponda orientale del Lario fu teatro di scontri tra famiglie rivali dei Torriani e dei Visconti, che ambivano al dominio di Milano.

Secondo Antonio Maria Stampa che scrisse nel 1715 e che consulta altri storici come il Corio, Il Giovio, il Moreggia e il Ballerini tra gli altri, nel suo “Ristretto ovvero piccola cronaca degli annali gravedonesi”, ed. S. Monti, “il Prencipe Barnabò dapprima ordinò ai Comaschi di invadere Gravedona, ma poi fu inviata una missione per mitigare l’ira di detto principe, “principiarono la fabbrica del Castello di Rezzonico e quello di Corenno e furono terminati nel 1357, l’uno per trattenere li comaschi, acciocché non si inoltrassero con lasciarsi un castello alle spalle, e l’altro per frenare ed opponersi a quelli di Bergamo e Valsasina, che per quella parte dovevasi inoltrarsi, come altresì fortificarono Varenna e Bellano.”

Nell’anno 1364, tramontò definitivamente il potere temporale dell’Arcivescovo di Milano, anche Corenno venne ceduto ai Visconti il cui potere si stava affermando in modo stabile sul territorio. In quel periodo la comunità di Corenno era unita a quella di Dervio come è attestato negli Statuti comunali del 1389 che menzionano il castello e il suo fossato.

Nel 1402 morì Gian Galeazzo Visconti, massimo esponente della famiglia, che aveva sposato una figlia del re di Francia e ottenuto il titolo di duca di Milano. Con la sua scomparsa, si inaugurò un periodo di grande incertezza politica nel ducato. Alcuni paesi della riviera, come Dervio, passarono sotto il dominio dei Rusconi di Como. Corenno invece venne infeudata ai Malacrida, assieme a tutto il territorio settentrionale del Lario. Da questa data si staccò da Dervio e rimase comune indipendente per ben cinque secoli. In seguito, per un trentennio i Veneziani cercarono di conquistare le terre di Milano, con una fortuna di breve durata. Riuscirono soltanto ad occupare la Valsassina e a giungere fino al lago per mettere navi in acqua e fare di Lecco, secondo il loro sogno “una venetia piccinina”.

Nell’anno1450 Corenno giurò fedeltà a Francesco Sforza, nuovo Duca di Milano. Nel 1481 la sponda del Lario da Corenno a Mandello venne ceduta in feudo a Pietro dal Verme, in seguito al suo matrimonio con la tredicenne Chiara Sforza. Cinque anni dopo, Chiara, senza figli, avvelenò il marito, entrò in possesso delle terre e si risposò. Dal suo secondo matrimonio nacque un figlio che, oberato dai debiti, vendette Corenno e tutti i suoi possedimenti a Francesco Sfrondati, membro del Senato di Milano. (M. Casanova)

Tra gli anni 1527 e 1532, mentre ormai le Signorie crollavano sotto l’urto dei grandi regni che si erano formati Oltralpe, un audace personaggio, divenuto leggendario spadroneggiò sul Lario. Era Gian Giacomo Medici, detto ironicamente il Meneghino (piccolo Medici). Questi attaccava le terre fedeli a Milano, terrorizzando e depredando i paesi del lago che si rifiutavano di rifornire le sue truppe. Per quanto sorprendente, il Meneghino era zio di S. Carlo Borromeo e fratello del papa Pio IV. Quest’ultimo per rimediare alle sue scellerataggini concesse importanti indennizzi ai Comuni saccheggiati dal fratello.[2]

Nel 17 febbraio 1532 vi fu un grande scontro fra la flotta medicea e quella ducale. Pur senza aver subito gravi perdite, i medicei ebbero la peggio. Il 18 febbraio i medicei tentarono di sbarcare a Corenno, ma la popolazione li respinse. La flotta medicea si spinse allora verso Bellano e Colico che furono saccheggiate, dove riuscirono a razziare solo miglio e castagne. Dopo la presenza del Meneghino si fece sentire sul territori più forte la dominazione Spagnola preoccupata della difesa dai Grigione e intenzionato ad unire il Milanesado con i suoi possedimenti nelle Fiandre senza passare dalla nemica Francia.

Il comandante Pedro Henríquez Acevedo Conte de Fuentes, giunse a Milano nel 1600 con i poteri di dirigere la politica spagnola in Italia. Era un governatore di alto vigore, fortunato combattente e fidato consigliere del re. Nelle Fiandre dal 1595 aveva avviato un programma di opere di fortificazione, che rimase la sua principale base per la gestione della politica. Gli obiettivi della sua politica nel Milanesado erano soprattutto la sicurezza del paese con la costruzione di grandi opere di fortificazioni, utilizzando perfino i campanili e il presidio dei confini con la costruzione di piazzeforti.

A Colico, sul monte Monteggiolo fece costruire una grande fortezza per difendersi sia dalla Repubblica delle tre Leghe sia dai Veneziani che passavano di lì per commerciare con il nord. Prima aveva fortificato le città (Novara, Mantova, Pavia e Cremona) e aveva creato quattro nuove piazzeforti (a Soncino, a Mozzanica, a Casalmaggiore e a Colico). Per realizzare un efficiente sistema difensivo dapprima creò delle imprese militari che dovevano provvedere al funzionamento delle caserme. E in questo suo progetto si scontrò con la resistenza delle comunità costrette alla tassa di alloggiamento delle truppe. E in secondo luogo dovette provvedere alla sistemazione dei percorsi tra le città e i presidi. Scelse il Monteggiolo appartenente al contado di Como perché era raggiungibile via lago con imbarcazioni.

Nel 1606 Acevedo propose di far costruire una strada da Milano a Colico e incaricò Sitoni e Vacallo di “visitar los caminos que de Como y de Leco van al dicho fuerte”. Dapprima pensò a una strada che da Como arrivasse a Colico lungo la sponda occidentale, ma le comunità si opposero e proposero una strada sull’altra sponda. A Tolomeo Rinaldi, ingegnere camerale e Gaspare Baldovini ingegnere di fortezze si chiedeva di trovare la strada migliore, la più breve e la meno dispendiosa. Essi calcolarono per la sistemazione della strada della sponda occidentale £. 210.000 e quantificarono per la strada orientale una spesa di £. 82.000. Rinaldi controllò che per il tratto da Colico a Dervio si spendeva poco per il passo di un cavallo da soma. Per il difficile percorso da Dervio a Bellano si poteva usare la via della Muggiasca, con un ponte al Portone, e uscire a Cortenova in Valsassina, da cui si poteva andare agevolmente in piano tenendo a sinistra il Pioverna fino ai Forni di Introbio, dove occorreva rompere il Sasso del Bajedo e poi seguire la strada fino a scendere a Laorca e finalmente a Lecco. I Valsassinesi si opposero tenacemente a questo progetto. Il Giussani afferma che fu realizzato, mentre l’Arrigoni nega la sua esistenza. Però Pedro Hernriquez Acevedo, nel 1610 mandò truppe al Forte per la Valsassina perché era il tragitto più breve e le comunità avevano aggiustato la strada. In quello stesso periodo (1592 – 93) i veneziani avevano costruito la strada Priula  nella Val Brembana che congiungeva Bergamo con lo sbocco nella Valtellina poco distante da Morbegno.

Nel 1607 probabilmente si effettuò un adeguamento di tutta la strada. Questo un ulteriore indizio di adeguamento del percorso scelto pare testimoniato dal rifacimento del ponte di San Quirico di Dervio, sul torrente Varrone, eseguito nel 1607. In tal modo restava aperta una pista per Fuentes, più breve del percorso da Como poiché lunga 25 miglia da Lecco al Forte e 30 miglia da Lecco verso Milano. L’onere della manutenzione e del miglioramento ricadeva però sui comuni, in seguito alle ingiunzioni dello Stato.

Già nel 1610 vi passarono 3000 soldati che ne approfittarono per alcune scorrerie risalendo da Introbio fino alla valle del Bitto, e allarmando i Grigioni che rafforzarono i presidi di Cosio e Mantello. passarono anche compagnie scaglionate, che sostarono per esempio a Margno e a Crandola.

Nel 1620 più di 250 cavalieri vi transitarono diretti a Fuentes per la guerra di Valtellina.

Nel 1629 le truppe dei Lanzi dirette alla conquista di Mantova seguirono lo stesso percorso a ritroso. Gettarono un ponte di barche sull’Adda vicino a Dubino e, dopo aver saccheggiato Colico, passarono per il sentiero dell’oratorio di San Rocco e per la strada di San Nicolò, sopra la Cà, quindi da Dorio proseguirono a Corenno e salendo da Bellano, entrarono per la Valsassina. In un sol giorno arrivarono a Cortenova. Una volta a Lecco parecchi si dispersero e si dedicarono al saccheggio verso la chiusa a sud e verso l’Abbadia a Nord. Infine superarono il ponte di Lecco sull’Adda intorno al 12 ottobre.

Alla fine di agosto 1629 il governatore Spinola Doria aveva invitato il conte Serbelloni a visitare la strada: “di Colico e di Valsasena, acciò la cavalleria alemanna, quando verrà l’occasione possa passare facilmente per terra a Mandello e di là a Lecco, ove sta preparato un ponte”. Ma il Collalto non stette ad attendere l’ordine dello Spinola e il 12 settembre le truppe del Mèrode erano già a Lecco, seguite poi da altre compagnie, che sommavano a 25.000 soldati e con le famiglie 40.000. A Milano si seppe di questo passaggio il 10 settembre da un cavaliere corso da Forte Fuentes, dove molti soldati fuggirono e si ripararono a Lecco, unendosi alla sopraggiunta compagnia del Rainoni per il controllo del borgo.

Nell’autunno del 1630, il comune di Dervio ottenne che l’alloggio di un corpo alemanno, risiedesse piuttosto a Bellano per evitare. “un’immensa rovina, il totale sterminio della povera gente, già afflitta da inenarrabili miserie”.

Nel 1631 analogamente avvenne con il Rohan: battuti gli spagnoli di Fuentes a S. Martino di Morbegno, ci si attendeva che scendessero lungo la solita pista, cosi che i valsassinesi corsero alla difesa di Portone; invece in Rohan si acquartierò in Mantello e sul lago di Mezzola. Nel febbraio le truppe francesi si divisero in due tronconi: uno assalì la Torretta di Curcio e liberò la strada del lago; l’altro risalì la valle del Bitto, valicò il Legnone e scese a Premana, unendosi a Introzzo con i cavalieri saliti da Dervio, i 6000 seguirono ancora la strada di Bellano, batterono il presidio del Portone e, devastando la Valsassina, proseguirono fino al Ponte di Lecco, dove furono fermati dal mastro di Campo Ippolito Crivelli, di stanza a Lecco, e dal capitano Paolo Sormani.

In quel periodo a Corenno le mura del castello erano presidiate da una compagnia spagnola guidata dal capitano Pedro de la Ringa, che con sbarramenti riuscì ad evitare i saccheggi nel borgo. Questi fece abbattere case e stalle poste non lungi dal castello perché non servissero al nemico come luogo per posizionare le batteria e distruggere il paese.

Nel 1633, infatti fu ordinato al comune di Dervio di accomodare il suo tratto di strada per la cavalleria del Balosso diretta in Alsazia sotto pena che “verrà fatto sostare e mantenere in comune il detto corpo oltre al pagamento dei danni”. Nell’anno 1633, la strada pur disagevole aveva però anche valenza economica, perché vi passarono 70 cavalli carichi di armature dirette da Milano al Tirolo. Secondo antica tradizione serviva all’approvvigionamento delle ferriere di Lecco con i materiali ferrosi scavati o lavorati nella valle.

Non venne trascurata anche l’alternativa della navigazione, se attuata con vento favorevole, sia per i trasporti, sia per esigenze militari, come avvenne fra Lecco e Dervio ancora nel 1704 contro il Davia per 700 dragoni e corazzieri del Toralbe, inviati dal principe di Vaudemont, che proseguirono per la strada costiera.

I miglioramenti, che anche parzialmente erano stati condotti sull’intero tragitto, vennero così sfruttati non solo dagli Spagnoli ma anche dai loro nemici. I valsassinesi e i lecchesi in questi anni riportarono enormi devastazioni con gravi ricadute nell’economia specialmente quella mineraria e metallurgica, a discapito di tutto lo Stato.

Nel 1646 ai paesi della Riviera furono richiesti 17 soldati guastatori per il riatto delle strade.

Nel 1704 sempre per Lecco e la Valsassina passarono i 280 cavalieri imperiali del marchese Davia dirette all’assedio di Fuentes, pur poi fallito per l’arrivo da Lecco di 50 dragoni a piedi;

Nel 1706 contro il forte Fuentes, ultimo ad arrendersi nello Stato, vi transitarono le truppe del barone Kraustenein con 300 fanti dei cavalieri Carlini, Zozel e Frinstein e a nove giorni dopo i due cannoni con cui abbattere Fuentes.

Quando nel Settecento la fortificazione di Corenno perse ogni funzione difensiva, secondo il Catasto Teresiano il terreno venne destinato a vigna. La muratura ad ovest fu poi abbattuta per consentire la vista sul lago e per una maggior esposizione al per le viti.

Entro le mura del castello, il 27 e 28 giugno 1859 alloggiò il Corpo delle Guide a Cavallo della Brigata Garibaldi che accompagnava il loro generale che da Lecco si stava recando in Valtellina: in quell’occasione il comune dovette sborsare 130 razioni di vino per i soldati, 77 di fieno vecchio e 3 somme avena per i loro cavalli.

Gli scrittori parlano del Castello

Paolo Giovio che nel Cinquecento in giro nelle terre che Francesco Sfondrati aveva ricevute in Feudo da Carlo V, per descrivergliele poi in Larius, scopriva che “adiacet Corenum cum arce”, cioè che il borgo era addossato a una roccia e aveva una rocca.

Nel Seicento, Sigismondo Boldoni il quale, pure con il suo Larius, ci informa che sul punto più alto c’è una rocca per la più parte rovinata; ma, aggiunge, giocondissima per le dolci aure che vi spirano.

Nel Settecento è la volta di Anton Gioseffo Della Torre di Rezzonico a narrare, ancor egli con Larius, che la rocca di Corenno fu “munitissima, et plura bellorum tulit incomoda” e che a bruciar Corenno fu il lecchese Francesco Morone, comandante delle truppe cesaree.

Ai tempi di Anton Gioseffo la rocca di Corenno era già “semidiruta”.

Così nell’Ottocento Ignazio Cantù in Quattro giorni in Milano può rilevare: “Serba Corenno le reliquie del castello appartenente al conte Andreani-Sormani”.

Roberto Pozzi

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[1] G. Arrigoni, Notizie storiche della Valsassina e delle terre limitrofe, milano 1840

[2] M. Casanova e G. Pensa, Corenno Plinio, Bellavite.

Dervio: La “Castagnada de tucc i Sant”

mercoledì, Gennaio 11, 2012 @ 08:01 PM
aggiunto da admin

Per mantenere la tradizione locale di gustare le caldarroste nella settimana dei morti, nel giorno di Tutti Santi, la Pro Loco Dervio organizza una castagnata per tutti i partecipanti alla cerimonia in commemorazione dei defunti.
Le castagne vengono preparate seguendo i tradizionali metodi tramandati di generazione in generazione, e cioè mediante apposite padelle appese a ganci sopra ad un fuoco scoppiettante di legna e manovrate da mani abili ed esperte.
Insieme alle caldarroste viene offerto ai partecipanti anche un buon bicchiere di vin brulè, molto apprezzato specialmente se la giornata autunnale é umida o piovosa.

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