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Il Pavimento Romano di Lierna

martedì, Novembre 1, 2011 @ 10:11 PM
aggiunto da admin

Dal 2006 il Museo Archeologico di Lecco si arricchisce di un nuovo allestimento.
Si tratta del mosaico romano, databile al I sec. d. C. rinvenuto a Lierna sulle rive del lago nel 1876 che, dopo un lungo  restauro, viene esposto al pubblico nella sala romana. In stile geometrico, con tessere bianche e nere, è costituito da file di esagoni, con un motivo all’interno: su una fila vi è un fiore a sei petali, mentre sull’altra dei triangoli che formano delle clessidre. Il mosaico, rinvenuto insieme a tronchi di colonne, apparteneva ad una villa signorile edificata sulle sponde del lago.
L’importanza del mosaico risiede nella sua unicità: si tratta dell’unica testimonianza sul territorio lecchese dell’esistenza di edifici signorili di epoca romana costruiti sulla sponda orientale del lago.

Il Museo Archeologico situato a palazzo Belgioioso  in Corso Matteotti a Lecco è aperto al pubblico da martedi a domenica dalle h. 9.30 alle h. 13.30. Ingresso libero.

pavimento romano di Lierna

 

testo di Franca Panizza

Lierna – Il Lariusauro di Grumo e altri ritrovamenti fossili

martedì, Novembre 1, 2011 @ 09:11 PM
aggiunto da admin

Il Lariosauro era un rettile acquatico, carnivoro predatore, vissuto nel periodo Triassico, circa 200 milioni di anni fa, quindi più antico dei Dinosauri.
Il quell’epoca la zona si presentava come un mare tropicale , l’ambiente intorno a Lierna era simile ad una laguna dove, tra gli altri animali, viveva il Lariosauro.
Dai fossili ritrovati gli studiosi sono risaliti al suo probabile aspetto fisico.
Il Lariosauro era un animale lungo circa 1 metro, dalla struttura idrodinamica lunga e snella, con un collo allungato che sorreggeva una testa triangolare con la bocca munita di due file di denti aguzzi. Dalla struttura scheletrica degli arti si deduce che le zampe erano corte, muscolose, probabilmente pinnate le anteriori, adatte al nuoto.
Non si conosce con certezza il suo colore, poiché non è rilevabile dai fossili; si ipotizza una colorazione mimetica, grigio-verdastra, molto più chiara sul ventre: essendo un predatore, in questo modo poteva confondersi con l’ambiente marino mentre nuotava, sia visto dall’alto che dal basso.
Probabilmente non si allontanava mai molto dall’acqua, sulla terraferma doveva muoversi goffamente, un po’ come le attuali otarie.
Il suo nome deriva dal fatto che il primo esemplare fossile di questo animale venne trovato intorno al 1830 nella zona lariana vicino a Varenna e descritto dallo zoologo Giuseppe Balsamo Crivelli.

Nel 1933, presso la cava di Grumo, venne ritrovato casualmente da Giacomo Scanagatta, allora ragazzino, un esemplare di Lariosaurus balsami.
Il Lariosauro di Grumo, purtroppo privo della testa e di buona parte del collo, era un individuo relativamente giovane: il reperto misura 29 cm e se ne deduce che la lunghezza dello scheletro completo dovesse essere di circa 45 cm.
Nell’aprirsi in due del blocco che lo conteneva, quasi tutto il fossile è rimasto su una delle superfici, mentre l’altra ne ha conservato l’impronta.
Entrambe le matrici sono state salvate.
Di fatto, la parte più grande dell’esemplare aderisce ventralmente ad una delle due lastre, è cioè esposto il dorso dell’animale, mentre sull’altra insieme con l’impronta restano alcune ossa delle zampe e del torace.
Oggi è conservato presso il Museo di Storia Naturale di Lecco a Palazzo Belgioioso e dal giugno 2005 è aperta al pubblico la Sala del Lariosauro.

Lariosaurus Balsami Curioni - il fossile ritrovato a Lierna

Lariosaurus Balsami Curioni - il fossile ritrovato a Lierna


ALTRI RITROVAMENTI DI LARIOSAURO

Nella nostra zona sono stati rinvenuti altri esemplari di Lariosaurus Balsami : si tratta di 14 ritrovamenti che comprendono anche piccoli frammenti ed un calco naturale. Non si può escludere che qualche altro reperto sia detenuto clandestinamente in collezioni private.

Il primo esemplare fu trovato intorno al 1830 e segnalato nella rivista “Politecnico” di Milano nel 1839 da Giuseppe Balsamo Crivelli che, però, non gli diede un nome.

In seguito, un altro studioso, Giulio Curioni, rinvenne un altro fossile di circa 22 cm, il più piccolo conosciuto: era semplicemente un cucciolo di Lariosauro ma lo classificò come se fosse una specie diversa.

Nello stesso tempo diede il nome a quel primo esemplare che era stato descritto, ma non denominato, da Balsamo Crivelli.
In suo onore lo chiamò Lariosaurus balsami, il “rettile del Lario di Balsamo”.
Forse l’equivoco sul mostro del lago può essere nato da qui.
Nonostante l’incompletezza dell’animale, si trattava di una scoperta assai importante: era il primo rettile fossile rinvenuto in Italia.
Era uno dei più grandi esemplari che si conoscano: il  fossile misurava 56 cm, da cui si deduce che le dimensioni dell’animale dovevano aggirarsi intorno ai 110 cm.

L’esemplare meglio conservato di Lariosaurus balsami è custodito in un museo di Monaco di Baviera. E’ lungo 90 cm ed è il soggetto più completo che si conosca. E’ stato scelto come esemplare di riferimento dopo la perdita del primo esemplare tipo durante la Seconda Guerra Mondiale nei bombardamenti di Milano del 1943.

L’esemplare più grande sinora ritrovato arrivava al metro e trenta, era conservato al Museo di Storia Naturale di Milano ma probabilmente andò perduto insieme ad altri esemplari nel rogo in seguito al bombardamento del 1943. Curioni, che l’aveva classificato, comprò personalmente dai cavatori anche altri esemplari.
La sua collezione personale, che comprendeva anche il secondo piccolo reperto ritrovato ed erroneamente classificato, venne da lui donata all’Ufficio Geologico di Roma.
Questo fece sì che i reperti, trasferiti dal Museo di Milano a Roma, si salvassero dai bombardamenti.

Un esemplare piuttosto grande, di circa 60 cm, ritrovato nel 1921 presso il Crot del Pepot a Perledo, è oggi conservato al Museo di Storia Naturale di Milano.

In ordine di tempo, dopo quello di Grumo, l’ultimo esemplare scoperto è un piccolo reperto trovato ad Olcio negli anni ’70.

Presso la grotta della Madonna di Lourdes, che si trova nel cortile dell’asilo di Olcio, alcuni bambini videro nel lastricato dell’area pavimentata antistante “una specie di disegno fatto dagli uomini preistorici”: si trattava di un soggetto giovane di Lariosauro, uno dei più piccoli conosciuti, che misurava circa 24 cm.
Anch’esso è conservato presso il Museo di Storia Naturale di Lecco.

Dagli anni ’70 ad oggi, alcuni autori hanno ascritto a Lariosaurus balsami  un certo numero di fossili ritrovati in diversi paesi europei: Svizzera, Austria, Germania, Spagna.

 

” I testi sono tratti da “Lariosaurus” di Giancarlo Colombo e da una ricerca svolta dagli alunni della Scuola Media di Lierna e rielaborati a cura di Marina De Blasiis”

Lierna – la Cava di Grumo

martedì, Novembre 1, 2011 @ 09:11 PM
aggiunto da admin

Entrò in funzione nel 1867 e fin da allora venne definita “cava del marmo nero”.
La cava era di proprietà della famiglia Scanagatta che vi lavorò fino agli anni ’50.

Famiglia Scanagatta

Nonno di Giacomo Scannagatta, Giacomo Scannagatta bambino e nel 2008

L’estrazione delle rocce veniva effettuata a mano con martello e scalpello, poichè, data la vicinanza con l’attuale provinciale 72, non si potevano far brillare mine.

Le rocce si presentavano a strati, pertanto non era possibile estrarre blocchi di grandi dimensioni; inoltre non tutta la roccia era ugualmente sfruttabile a causa del diverso spessore degli strati, delle variazioni delle proprietà fisiche e per la presenza di discontinuità.

Il materiale estratto veniva scelto dai compratori sulla piazza di Lierna, in base alle richieste di mercato; se il pezzo era troppo grande si provvedeva a tagliarlo ulteriormente in cava, altrimenti veniva trasportato via lago a Varenna dove si procedeva alla sua levigazione e trasformazione nella forma voluta.

Anche la Fabbrica del Duomo di Milano fu interessata all’acquisto della cava che però la famiglia Scanagatta non volle mai vendere.

All’interno degli strati calcarei furono anche recuperati minerali allo stato cristallino e fossili; fu proprio alla cava di Grumo che nel 1933 venne ritrovato il fossile di un esemplare di Lariosauro.

Operai Cava di Grumo

Signori in visita alla Cava con gli abiti della festa e i Cavatori della Cava di Grumo

Le foto sono state fornite da Giuseppe Scanagatta

Contatti Prolocolario

martedì, Novembre 1, 2011 @ 09:11 PM
aggiunto da admin

Di seguito sono elencati tutte le email riferenti il sito PROLOCOLARIO.IT

Contatto Generale info@prolocolario.it
Pro Loco Abbadia Lariana abbadia@prolocolario.it
Pro Loco Bellano bellano@prolocolario.it
Pro Loco Colico colico@prolocolario.it
Pro Loco Esino Lario esino@prolocolario.it
Pro Loco Dervio dervio@prolocolario.it
Pro Loco Lierna lierna@prolocolario.it
Pro Loco Mandello del Lario mandello@prolocolario.it
Pro Loco Varenna varenna@prolocolario.it

Il Marmo Nero di Varenna

martedì, Novembre 1, 2011 @ 08:11 PM
aggiunto da admin

E’ il materiale estratto presso la cava di Grumo.

Si tratta di una pietra ornamentale di colore grigio scuro con venature candide che volge al nero con la lucidatura, diffusa nella zona intorno a Perledo e Varenna.

In realtà non si tratta di un vero marmo, dal quale differisce per l’origine geologica: è una roccia sedimentaria, che ha origine dal depositarsi di materiali vari (ciottoli, sabbie, polveri, fanghi, resti di piante e animali), composta quasi interamente da carbonato di calcio, cioè calcare, con la presenza di sostanze bituminose che le conferiscono il colore nerastro.

Per contro il vero marmo è una roccia calcarea di tipo metamorfico, che nel corso delle ere geologiche si è trovata sepolta a grande profondità o in vicinanza di magma, dove le alte temperature e pressioni hanno causato trasformazioni nella sua struttura.

Il materiale veniva utilizzato per elementi ornamentali di edifici religiosi e civili o per altri scopi edilizi: è di questo tipo il marmo nero del Duomo di Milano.

Chiesa di San Giorgio a Mandonico

martedì, Novembre 1, 2011 @ 07:11 PM
aggiunto da Dervio

L’ambiente
La chiesa si trova appena oltre la orrida Valle dei Mulini e a monte del nucleo di Dorio, da cui ugualmente si può giungere in pochi minuti.
Sorge biancheggiante su una piazzuola erbosa poco sotto un gruppo di splendidi edifici rustici in grezza pietra locale costruiti fra il sec. XVI e il XIX, i quali costituivano il luogo di Mandònico, ora disabitato.

L’architettura
La chiesa esisteva nel 1412 ed era munita di un portico antistante dove si radunava la comunità di Dorio.
Era retta da un beneficiale della comunità che nel 1506 ottenne la dignità parrocchiale, durata fino al 1677 quando venne trasferita in Dorio.
La veste attuale risale appunto alla seconda metà del Seicento, con ulteriori modifiche del 1804 concernenti la facciata, nella quale si osservano fenestrature di diversa epoca e l’elegante portale di inizio Seicento.
La piccola navata di circa 5 m per 12,5 ha un soffitto piano e, dopo gli arconi dello stretto presbiterio con volta a botte, mantiene l’abside semicircolare della più antica struttura, risalente probabilmente al sec. XIII.

Gli affreschi del 1492
Un tempo l’interno era riccamente dipinto, ma ora rimangono solo alcuni freschissimi riquadri affrescati sulla parete settentrionale, restaurati nel 1983, racchiusi da un raffinato fregio laterale a clipei circolari e ramificazioni foglia-te. Nel registro superiore un S. Giorgio a cavallo soccorre una fanciulla e trafigge il drago nello sfondo di un paesaggio di lago, colline, rocce, castelli; accanto una Vergine sta assisa in trono col Bimbo il quale stringe un uccellino. Inferiormente sono ritratte le figure stanti di S. Michele in armatura che calpesta il demonio e con la tradizionale bilancia per la pesature del bene delle anime; S. Antonio abate accompagnato dal maialino; la Madonna che in trono mostra un fiore; S. Gottardo patrono dei mercanti, dei febbricitanti e dei viandanti. Nelle iscrizioni frammentarie delle fasce orizzontali bianche si legge la data 1492. Le opere parlano con alta qualità dell’incantevole mondo tardogotico lombardo, in evidente richiamo all’atmosfera del Bergognone; vengono avvicinate alla produzione di Bernardino de Rossi, attivo a Milano e Pavia, oppure di Battista da Musso, attestato più tardi in dipinti di Crémia, Garzeno e Gravedona. Sull’altare si trova un curioso globo marmoreo col serpe demoniaco, probabile resto di una statua, e un Crocifisso emergente da un secco Calvario ligneo.

Ricettario – Cavolatte

martedì, Novembre 1, 2011 @ 06:11 PM
aggiunto da admin

Bevanda energetica usata dai nostri antenati: visto che la quantita di zuccheri e grassi contenuti non è da poco, è meglio avere del movimento da fare per smaltirli

Ingredienti

½ litro di latte
2 rossi d’uovo
2 cucchiai di zucchero
cannella
scorza di limone

Preparazione

Portare a bollore il latte, se fa la pellicina eliminarla, mentre il latte si scalda sbattiamo i rossi d’uovo con i due cucchiai di zucchero (come dose ogni rosso d’uovo 1 cucchiaio di zucchero) facendo uno zabaglione che andremo ad amalgamare con il latte ancora caldo, aggiungiamo quindi mezza stecca di cannella  e poca scorza di limone (per la quantità di cannella e limone ognuno si regola a proprio piacimento, il sottoscritto ha indicato le dosi che ha usato).

Il cavolatte si può bere caldo o freddo.

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Ricettario Gastronomia Lariana

martedì, Novembre 1, 2011 @ 06:11 PM
aggiunto da admin

La Cucina Montana e Valligiana

martedì, Novembre 1, 2011 @ 05:11 PM
aggiunto da admin

Le valli che confluiscono nel lago di Como, nei secoli hanno ricevuto influssi culturali dall’esterno: Veneto, Grigioni, pianura Padana. L’agricoltura non è mai stata ampiamente praticata nella zona.
Infatti il territorio era per lo più lasciato incoltivato per il pascolo o per ricavarne il foraggio invernale per il bestiame, e solo i piccoli terrazzamenti a mezza montagna erano utilizzati per la coltivazione del mais, delle patate e dei cereali resistenti ai climi rigidi come orzo, grano saraceno, segale, miglio e avena.

Altro alimento importante delle popolazioni locali era la castagna, che veniva consumata come tale o utilizzata per produrre la farina.
L’attività principale era dunque l’allevamento del bestiame che forniva latte, formaggi, salumi e condimenti, ovvero gli elementi di base della gastronomia della zona.

Basti pensare che fino alla fine dell”800 l’olio era pressoché sconosciuto e perfino l’insalata era condita con il burro, che in alcune preparazioni era sostituito da pancetta fritta.
In pratica ogni famiglia provvedeva al proprio sostentamento alimentare in un’economia di sola sussistenza, testimoniata dalla grande frugalità della pietanze.

Con l’introduzione nell’area alpina di mais e grano saraceno, i cibi primitivi come il macco o la puls di castagne, furono sostituiti dalla polenta che divenne il piatto principale di tutte le mense, consumata da sola (pulenta santa o pulenta e spüda) o accompagnata da latticello, formaggio, salame e anche da frutta o insalata.
L’alternativa alla polenta era rappresentata dalle zuppe, preparate con verdure, fagioli, talvolta castagne, miglio e panico pestati o orzo anche non pilato; oppure con polentina morbida di grano saraceno, mais o frumento, che in qualche caso veniva tostata nel burro e diluita con latte o acqua.

L’alimentazione della piccola nobiltà locale si discostava da quella delle classi meno abbienti sia per l’abbondanza delle portate sia per la presenza di cacciagione, pesci d’acqua dolce, lumache e gamberi di fosso. Oltre che dalla grande varietà di preparazioni ottenute con pochi ingredienti, la cucina era caratterizzata dalla povertà dei mezzi di cottura.

Infatti i pastori durante gli alpeggi estivi in alta montagna disponevano solo di un paiolo e di un bastone per rimestare le pietanze (taracc o taraj), mentre nelle case a fondo valle e delle famiglie benestanti la “batteria” di pentole comprendeva anche una pentola di bronzo per la trippa e le lunghe cotture delle minestre d’orzo, una padella di ferro per i kisciö e i cicc (schiacciate di farina nera e formaggio), e una pentola di pietra ollare (lavécc) tipica della Valmalenco ma prodotta anche in Valchiavenna fin dall’epoca romana, divenuta il simbolo della cucina locale.

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La Cucina del Lago

martedì, Novembre 1, 2011 @ 05:11 PM
aggiunto da admin

Il territorio lariano presenta tradizioni e usi alimentari abbastanza omogenei, incentrati su alcuni fattori ambientali e climatici (il lago, la montagna) che hanno influenzato un peculiare orientamento verso lo sfruttamento di specifiche risorse.
In questa vicenda anche la storia ha giocato un ruolo affatto trascurabile: la frequente opposizione verso i milanesi, il fatto che le grandi vie di commercio verso il Nord Europa passavano un tempo (e ancora oggi) di qui, e, in tempi più recenti, l’attrattiva turistica delle aree lacustri, hanno determinato il radicamento di stili gastronomici piuttosto stratificati e differenziati dal resto delle aree lombarde.

Rispetto a molte tradizioni alimentari dell’Italia Settentrionale, la razione tipica lariana, pur conservando una generale impronta pauperistica, è molto più varia: per le basi amilacee, oltre al riso, al mais e alle patate, si fa ampio ricorso ai cereali minori (miglio, orzo, segale, avena), al grano saraceno e alle castagne; fra le carni, la preferenza va a quelle bianche o di selvaggina, con inferiore insistenza verso quelle bovine e, soprattutto, di maiale; il pesce di acqua dolce non è una presenza sporadica; gli ortaggi sono ampiamente rappresentati e, insieme alle erbe selvatiche, vanno ad arricchire le minestre e le zuppe più povere; la stessa frutta (grazie alla benevolenza del clima) è presente in buona varietà.

Ma è soprattutto nei condimenti che la cucina tipica lariana assume connotati originali: all’impero del burro e del lardo (una costante dei moduli padani) si contrappone il ricorso abbondante all’olio di oliva (di produzione locale, e dotato di una caratteristica leggerezza) e agli oli vegetali (di linosa, di noci, di ravizzone).

Nemmeno il ricorso al burro o al consumo di formaggi grassi è così dominante come si potrebbe pensare sulla base della locale specializzazione produttiva: questi prodotti erano per lo più commercializzati nella più ricca Milano, mentre sulla mensa lariana restavano, come ingredienti, gli scarti della lavorazione casearia: siero e latticello.

Non è un caso, fra l’altro, che le persistenti carestie che hanno afflitto l’area padana e la Brianza (e le malattie conseguenti, soprattutto la pellagra dovuta all’alimentazione monomaidica), hanno in parte risparmiato le popolazioni lariane, per la saggezza nel comporre formulazioni sì povere ma nutritivamente equilibrate.

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