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Abbadia: Le due tele di tradizione agostiniana nella Chiesa di San Lorenzo

domenica, Gennaio 1, 2012 @ 06:01 PM
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S. Agostino fu uno dei primi, in occidente, a dare una regola monastica ai suoi seguaci.
Parecchi ordini religiosi, fra i quali i Servi di Maria presenti in Abbadia per quasi sei secoli, si ispirarono alla sua regola.
Un ricordo della spiritualità agostiniana sono i due grandi quadri che si possono osservare nella nostra chiesa parrocchiale, appena entrati dalla porta principale, a destra e a sinistra. Provengono dal Conventino e furono messi in questo luogo da don Raspini.

san agostino - chiesa san lorenzo
A destra una grande tela alta m. 1,90 e larga m. 2,70 raffigura la Madonna con il bambino in braccio, che consegna la cintura al vescovo Agostino. Per terra si trova un libro, segno della cultura, della sapienza del santo, alle sue spalle la madre Monica e un altro frate. Nell’angolo a sinistra in basso un putto osserva la Vergine, così pure nell’angolo a destra in alto due angioletti seguono giocosi l’apparizione, mentre al centro compare solo la testa di un putto. Tutta la scena si svolge lungo la linea diagonale compresa tra gli angioletti. Il paesaggio raffigurato nella parte destra in basso mette in evidenza la capacità descrittiva dell’autore a noi ignoto. La cintura è una piccola striscia di stoffa o di cuoio da stringere intorno alla vita, come segno di appartenenza a Maria Vergine. Da qui deriva la devozione alla Madonna della Cintura presente in Abbadia.
Sulla parete di sinistra si trova l’altra tela gemella, che pure parla di S. Agostino. Il vescovo di Ippona è stato un grande studioso, un acuto teologo. Fra le numerose opere che ha scritto si trova un trattato sulla Trinità, mistero che ha meditato profondamente. Il quadro in questione nell’angolo in alto a sinistra raffigura le tre persone della Trinità nella gloria del cielo. In basso un bambino, con una conchiglia, cerca di spostare l’acqua del mare in una buca, sotto gli occhi incuriositi di S. Agostino. La leggenda dice che mentre il santo stava meditando sul mistero della Trinità per scrivere il suo trattato, vide un fanciullo sulla spiaggia che cercava di travasare l’acqua del mare in una buca. Allora intervenne dicendo: “Come è possibile che l’acqua del mare posssa essere contenuta in una piccola buca?”. Il bambino che in realtà era un angelo, rispose: “Come è possibile che il mistero della Trinità sia contenuto nella tua testa?”.
Le tele furono dipinte nel sec. XVII e vennero conservate nel Conventino fino al 1912. Don Rosaspini, nel numero di settembre del 1935 del bollettino parrocchiale “La Voce del Pastore” dice che la devozione alla Madonna della Cintura fu introdotta e diffusa in Abbadia dai Padri Serviti. “Si può desumere chiaramente da due grandi quadri che nel 1912 trovai ancora appesi nell’ampio corridoio superiore dell’ex convento e che nel 1915 feci ritoccare dal pittore L. Tagliaferri e trasportare nella chiesa parrocchiale”.

Fonte: Abbadia Oggi – 21 Novembre 1990

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Abbadia: Le decorazioni di Tagliaferri nella Chiesa di San Lorenzo

domenica, Gennaio 1, 2012 @ 06:01 PM
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Chi entra nella chiesa parrocchiale di S. Lorenzo in Abbadia è colpito subito dalla ricchezza dei festoni, degli ornamenti, delle statuine, delle dorature che brillano sull’altare ligneo barocco al centro dell’abside.
Lo sguardo, poi, si innalza quasi spontaneamente verso la volta della chiesa decorata da Luigi Tagliaferri, pittore di origine valsassinese (Pagnona), ma cresciuto a Mandello del Lario, in una famiglia di decoratori. E’ sepolto proprio nel cimitero di questo paese, nella cappella di famiglia: la lapide riporta la data di nascita e di morte: 14 novembre 1841 – 12 giugno 1927, e la sua fotografia, un busto venerando con barba e capelli fluenti, lo sguardo profondo e penetrante. Nessuno finora ha scritto su di lui o ha elencato le sue opere nonostante abbia avuto una produzione molto vasta: nella nostra zona ha decorato la chiesa arcipretale del suo paese, il battistero di S. Antonio a Crebbio, la chiesa di S. Rocco a Maggiana, la chiesa di S. Giovanni a Bellagio, ed altri edifici sacri del lago e della Valtellina.
E’ stato un uomo animato da profonda fede e conoscenze teologiche, sicuro nell’usare il pennello, con reminiscenze classiche e barocche, che, tuttavia, non risultano stucchevoli, nè danno fastidio, perchè usate con sobrietà, gusto, senso dell’equilibrio e proporzione.

tagliaferri abside san lorenzo
La composizione che possiamo ammirare nel catino dell’abside della nostra chiesa, prende spunto dal libro dell’Apocalisse: si tratta della gloria dell’Agnello descritta da S. Giovanni.
Al centro spicca l’Agnello, simbolo di Cristo immolato, con la scritta “Agno honor et gloria”.
Ai suoi piedi rotolano verso il basso le potenze infernali, sospinte nel castigo dagli angeli fedeli a Dio, mentre lo slancio verso l’alto è dato dalle schiere angeliche, che, sostenute da nuvole leggere, fanno intravvedere, quasi dietro a un velo, la gioia del Paradiso.
Sulla sinistra dell’affresco sono raffigurati i santi: vergini, dottori, martiri, che, con al centro la croce, rendono onore all’agnello, mentre sulla destra sono rappresentati tutti i popoli della terra (europei, africani, indiani) convertiti a Cristo dall’opera dei missionari. In un angolo del catino (in basso a sinsitra) si può leggere la sua firma: “Tagliaferri L. pinse 1915”.
Nelle tre fasce trasversali, che congiungono i pilastri di sostegno della volta, egli ha raffigurato in medaglioni i dodici apostoli, divisi in gruppi di quattro ciascuno, con in mano i simboli caratteristici di ciascuno, che permettono di individuarli, mentre, nell’ultima fascia sovrastante l’organo, quattro graziosi putti portano dei cartigli con la scritta “Laudate Deo in cordis et organo”.

tagliaferri 2 san lorenzoAl centro della volta spicca la gloria di S. Lorenzo a cui è dedicata la chiesa, con la palma del martirio in mano, vestito con le insegne di diacono, è portato in Paradiso dagli angeli, e ai suoi piedi sono raffigurati gli strumenti tradizionali del martirio, con la graticola su cui venne bruciato. La firma e la data sono ripetute anche in questo affresco.
Di fianco alla gloria di S. Lorenzo, sopra la finestra di destra, un angelo regge un cartiglio con la scritta: “In graticola te Deum non negavi”, mentre sopra la finestra di sinistra si legge: “Gratias tibi quia ianuas tuas ingredi merui”. Nei vani soprastanti le altre quattro finestre sono raffigurate, secondo uno schema tradizionale, le quattro virtù cardinali; partendo da sinistra, vicino al coro, la giustizia, una giovane donna con in mano la bilancia da una parte e la spada dall’altra, la prudenza, una vergine con in mano la lampda accesa, come quella del vangelo, che si guarda allo specchio, la temperanza, un giovane che versa del vino in una coppa, la fortezza, una giovane, seduta su un leone, con l’elmo alato della vittoria, e, in una mano, un fascio littorio da cui spunta l’ascia.

Fonte: Abbadia Oggi Anno V – N. 4 – 21 Luglio 1986

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Abbadia: L’Altare della chiesa di San Lorenzo

domenica, Gennaio 1, 2012 @ 06:01 PM
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altare  - san lorenzoAnche oggi, come un tempo, l’Altare Maggiore della Parrocchiale di Abbadia, più che una mensa eucaristica, si presenta come un grande monumento ligneo, dai molteplici significati.
Nella relazione della visita pastorale del 1685 viene definito “un grande tabernacolo di legno dipinto e dorato, di nobile struttura, forma ed altezza”.
Si trovava allora nella vecchia chiesa di San Lorenzo, là dove si dice Chiesa Rotta, abbandonata poi per riutilizzare l’edificio già dedicato ai Santi Vincenzo ed Anastasio, lasciato libero dai Padri Serviti per la soppressione del convento del 1789.
Pure con qualche modifica, forse anteriore al ripristino voluto dal parroco Carlo Raspini, l’altare appartiene chiaramente alla seconda metà del Seicento e si apparenta ad una serie di esempi superstiti nella zona lecchese.
Ne conosciamo della stessa epoca a Bellagio, a Rezzago in Valassina, a Maisano di Valbrona, ad Asso, nella chiesetta francescana di Montebarro, a Mandello, a Crebbio e a San Martino di Introzzo in Valvarrone, datato al 1660.
altare particolare 1 san lorenzoQuesto di Abbadia ha struttura simile all’eccezionale pezzo di Introzzo, ma anche a quelli minori di Maisano e Mandello. Nell’arcipretale vicina, molte opere scultoree del momento, pulpito, architrave e Crocefisso, stalli del coro, attorniano l’ara preziosa, attribuibile forse all’intagliatore Giulio Tencalla che lavorò all’Ancona tra il 1674 e 1676, circa gli stessi anni cui appartiene l’altare di Abbadia.
Dietro la mensa rielaborata, dal basamento che si svolge in due gradini sovrapposti, sorretti da putti telamoni, sorge il ciborio o tempietto, formato da due ordini ottagonali, coronati dalla cupoletta che svetta nella figura di Cristo risorto. Ai lati dell’ordine inferiore del ciborio, si sviluppano due brevi bracci quadrangolari, quasi reliquiari che sorreggono le statuine dei Santi protettori della parrocchia, secondo l’uso riscontrabile in tutti gli altari ricordati: San Lorenzo con la graticola, San Vincenzo patrono dell’abbazia medioevale. I tempietti sopra l’altare maggiore sembrano originare dal quello che papa Pio IV (fratello del conte di Lecco, il Medeghino, che molti guasti compì con le sue guerre anche alla terra di Abbadia) inviò circa il 1560 al nipote Carlo Borromeo, il quale accolse il suggerimento tridentino di offrire un particolare spazio all’esposizione del Santissimo, che prima si usava riporre in un apposito scurolo dell’abside o in una cappella. altare particolare 2 san lorenzoL’idea che presiede al ciborio del Duomo di Milano, eretto dall’architetto Pellegrini, si collega alla biblica arca, la tenda-dimora di Dio sulla terra, nel mezzo del suo popolo eletto. L’Eucaristia non era più solo un elemento di comunione, ma veniva considerata come una presenza meravigliosa, che distingueva un popolo che aveva il suo Dio tanto vicino. I Gesuiti del Seicento potevano appunto parlare del tempio come di un “piccolo paradiso”.  Il grande altare di Abbadia, col ciborio alto m. 3,20, rappresenta la sintesi di secolari concezioni, riprese finanche nei colori dell’azzurro e dell’oro, distintivi del cielo temporale e del cielo paradisiaco dell’eterno. Il tabernacolo doveva probabilmente recare la scena della “Imago Pietatis”, cioè del Cristo sofferente sopra il sepolcro: ora questa tavoletta è stata trasferita superiormente, dove invece – secondo le tipiche espressioni – si apriva una nicchia per l’esposizione dell’Eucaristia. Ai suoi lati, nel primo piano della torre, stavano in nicchie le statuette di San Francesco ostendente le stimmate e di San Filippo Benizi fondatore del convento dei Serviti; le ali laterali recano invece S. Antonio abate, cui era dedicato in antico un altare, e un altro santo, Martino o Bartolomeo. Sui due fastigi dormivano fra angeli i protettori della chiesa locale, Lorenzo e Vincenzo. Nel secondo piano, Eurosia e Caterina d’Alessandria, con la ruota del martirio, affiancano la figura centrale dell’Immacolata. I Santi che circondano il risorto sono appunto emblema della proiezione della comunità umana nel divino, elementi di imitazione ma anche tramiti della supplica a Dio. E’ perciò privilegiata la presenza della Vergine, che precorre il futuro dell’umanità (anche se la festa dell’Immacolata verrà stabilita solo nel 1708). Al di sopra della balaustrina intervallata dagli angeli che recano i segni della Passione (lancia, colonna, croce e spugna), l’apparato costruttivo e concettuale si riassume nel Cristo risorto. Sui piedistalli laterali, due Angeli ceroferari alti un metro confermano la luce che emana dal simbolico paradiso. In altri casi, come ad Asso, gli Angeli omaggiano invece la divinità col turibolo.

altare particolare 3 san lorenzo
Al di là quindi della “macchina” barocca e della sua meraviglia scultorea, i concetti sono ancora oggi comprensibili. L’elemento decorativo diventa quindi un valore, anche nei termini artistici, dove un oscuro artefice, probabilmente locale (e ricordiamo proprio a Mandello l’abile intagliatore Francesco Micheli – dal diffuso cognome anche abbadiese – che scolpì Crocefisso e architrave nel 1677-1678) raggiunge importanti effetti espressivi, nel realismo delle statuine, nelle colonnine tortili, nei timpani spezzati, nei fregi, nei mascheroni diabolici calpestati in basso dagli angioli: tutto segno dei complessi moti dell’animo dei nostri antenati del Seicento, che in modo particolarmente intenso alternavano slanci e dubbi verso l’intuizione sensibile dell’infinito.

Fonti: Angelo Borghi da Abbadia Oggi Anno VI – N. 6 – 21 Novembre 1987

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Il termine “Castello”

domenica, Gennaio 1, 2012 @ 03:01 PM
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ll nome più comune per riferirsi alle costruzioni di difesa è il termine “castello” (castellum) che è una derivazione dal termine castrum (un piccolo castrum). Con questo termine si indicavano prima di tutto le fortificazioni mobili dell’esercito romano. Nella nostra mente con la parola “castello” facciamo riferimento soltanto all’ultima tipologia di queste costruzioni, cioè all’abitazione fortificata del signore che domina sul territorio, e poi con la fantasia immaginiamo suntuose abitazioni come quello delle favole. Quindi il termine castello è ambiguo, in quanto viene applicato a costruzioni assai diverse fra loro: la rocca, il forte, la fortezza, il borgo fortificato, e la dimora del feudatario o del principe). In realtà il termine indica due tipi di architetture differenti per funzioni e per consistenza. In un primo tempo, infatti, si riferiva soltanto a una costruzione eretta per la difesa temporanea ed eccezionale della comunità e solo in seguito passò ad indicare la residenza stabile del feudatario o del capo di uno stato, con famiglia, servitù e scorta.

Durante l’epoca della Repubblica e dell’Impero romano l’obiettivo dello Stato era allargare i confini e dare sicurezza ai cittadini. Quindi il castrum, era una costruzione di natura e di uso militare centralizzato, eretta prevalentemente in zone di confine, per assicurare la difesa e per dare sicurezza ai suoi cittadini.

Durante il Medioevo fino alla caduta dell’impero centrale, le singole comunità vivevano in perpetuo stato di pre-allarme nei confronti delle altre comunità vicine e lontane. Così furono costrette a provvedere in modo autonomo alla propria difesa e ricorsero generalmente a tre soluzioni: insediamenti montani, anche non fortificati, abitati cintati di mura (borghi), castello recinto staccato dal nucleo per rifugiarsi in caso di pericolo.

Gli insediamenti montani situati sulle pendici delle montagne godevano di una difesa naturale mentre alcuni borghi più importanti lungo la costa come Bellano, Gravedona e in parte anche Dervio erano circondati dal mura con torri. Il castello recinto, invece, è una cortina muraria di difesa munita da una o più torri di avvistamento, di controllo e di segnalazione costruita appositamente per la difesa degli abitanti in caso di assalto nemico.

Dove era possibile si costruiva la fortificazione-recinto su un luogo alto, come per esempio a Segname e a Vezio. Occorre ricordare che questi castelli recinti sono molto più frequenti nelle zone prossime ai confini che nella pianura lombarda.

Roberto Pozzi

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Il sistema costruttivo delle fortificazioni

domenica, Gennaio 1, 2012 @ 03:01 PM
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Il sistema costruttivo delle fortificazioni-recinto è caratteristico. Si fa ampio uso del pietrame misto, allo stato naturale, e appena sbozzato con il martello con presenza anche di ciotoloni di fiume. La tecnica e l’uso del materiale è quello descritto nel “memoratorio” liutprandeo, forse estratto o riassunto di un capitolato di appalto per lavori edili del tempo. Anzitutto l’antica misura era il piede liprando, corruzione probabile di Liutprando, equivalente a 0,4462 m. Ed in piedi sono date le misure memoratorio: ad esempio la muratura “qui usque ad pedem sit grossus”. In Lombardia, più tardi si usò il “braccio milanese” composto di dodici once e 144 punti, ed era equivalente a circa 0,595 m. Il rapporto tra il piede liprando e quello lombardo è di circa tre quarti.

La materia prima dell’arte muraria era costituita dai materiali: pietra, laterizio, leganti e legnami. I leganti fino dagli antichi tempi erano o la calce o il gesso. Gli egiziani usavano il gesso non avendo lo stillicidio delle precipitazioni atmosferiche. I greci e i Romani perfezionarono l’uso della malta di calce (Catone il Vecchio, Plinio, Vitruvio). I Romani furono facilitati rispetto ai greci per l’approvvigionamento della pozzolana, materiale indicato per il miglioramento della calce che la rende idraulica, assai resistente all’azione dilavante delle acque e della neve.

Nel Medioevo e fino al secolo scorso si ebbero ben pochi progressi nei leganti impastando solo la malta di calce (moltam) con sabbia e acqua. La tecnica per migliorare la calce con la pozzolana verrà dimenticata nell’alto medioevo. A questa causa di degrado va associato l’impiego di materiale lapideo senza accurata riquadratura alla maniera dell’opus gallicum quindi con maggior impiego di malta. Ricordiamo che la muratura in pietrame del medioevo era di due tipi: l’opera romanese e l’opera gallica a secondo dell’impiego delle pietre: squadrate le une, quasi allo stato naturale le seconde. Non è ricordata nel memoratorio la muratura a secco, usata dai romani e diffusa nel medioevo soprattutto per l’edilizia militare (bastioni, torri, castelli). Le costruzioni impiegano come legante malta di calce, elastica e con scarsa capacità di aderenza. In tal modo, potevano aversi deformazioni ripartite senza il rischio di danni concentrati, smorzava il movimento degli angoli – conci in pietrame causati dalla variazione della temperatura ed inoltre aveva un gran pregio cioè la capacità di ributtare l’umidità assorbita. In quei tempi la tecnica costruttiva non faceva difetto. Per queste costruzioni per la difesa non mancavano maestranze.

I magisteri lapidum ed i magisteri lignamis costituiscono due categorie di maestri affini, con agevolazioni per le norme costruttive da seguire ed anche per agevolazioni fiscali. I compiti per l’edilizia sono codificati nel “Memoratium de mercedibus magisteri commacinorum” variamente attribuito a Gimondo, (662-671) o a Liutprando (712-744), comunque posteriore all’VIIII secolo.

Le murature ad “opus incertum” hanno il grosso vantaggio delle piccole dimensioni del materiale (le pietre) facilmente trasportabili dalla cava alla fabbrica o via terra (vecturari) o per via di acqua (lenanculari). Per modeste altezze le pietre venivano elevate a spalla con gerla o cesti, mentre la calce veniva sollevata unitamente a un truogolo. Per le torri e le murature di notevole altezza, si ricorreva all’uso di impalcature (macchine scansoriae) in legno, erette parallelamente alle fronti. Il legno veniva usato sotto forma di pertiche, di assi, di tondelli. Il ponteggio, in genere, veniva ancorato alle murature. Queste presentano fori angolari orizzontali sormontati da un piccolo architravi. Questi fori a volte inducono in errore presentandosi come feritoie. (Vianini)

Roberto Pozzi

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Dervio: Corenno Plinio
Il Castello

domenica, Gennaio 1, 2012 @ 03:01 PM
aggiunto da admin

Introduzione
Il castello di Corenno costituisce uno dei migliori esempi di fortificazione dello scacchiere lariano. Nonostante abbia subito vari assedi e assalti lungo i secoli, si caratterizza rispetto ad altri per il discreto grado di conservazione. Si tratta di un tipico castello-recinto a pianta irregolare, tendenzialmente quadrata, interamente costruito in pietra. Vi si accede dall’ingresso verso meridione protetto da una torre quadrata del tipo a vela. Presenta sul lato a monte un’altra torre quadrata più tozza con funzioni di avvistamento, di segnalazione di pericolo e di difesa.

Il castello-fortificazione di Corenno  è semplicemente una recinzione per l’estrema difesa della comunità e dei suoi beni più preziosi in caso di scorrerie, guerre e incursioni di popolazioni nemiche. In esso vi trovavano rifugio e protezione dai saccheggi la popolazione, il bestiame ed i generi di sopravvivenza della comunità. Il suo precedente storico è il castrum romano: cinta munita di torri dove si rifugia la popolazione civile in caso di attacco esterno. È spesso il risultato finale di due eventi edilizi non sempre contemporanei: la cortina muraria e le torri di avvistamento.

Il Castello di Corenno Plinio

Il Castello di Corenno Plinio

La posizione
La fortificazione di Corenno era considerata di grande importanza strategica per la difesa del milanese sia dal primo terziere della Valtellina sia della Val Chiavenna. Infatti, sulla strada che dal Trivio porta alla Valsassina non ci sono castelli medioevali di difesa se si eccettua le torri di avvistamento di Fontanedo a monte di Colico. Da Corenno partiva anche una strada che si inerpicava per salire a Vestreno, passando per il castello di Orezia.

Le mura
Castello di Corenno Plinio la torreL’area della fortificazione racchiusa nelle mura è modesta in quanto proporzionata al numero di abitanti del piccolo borgo. La muratura di recinzione, chiamata anche “cortina”, poggia in molte parti direttamente sulla roccia ed è coronata da merli a coda di rondine. Il fatto di avere i merli di tale fattura, non significa che Corenno fosse un comune ghibellino, i merli esistevano già prima della nascita delle irriducibili fazioni di parte. La muraglia presenta sottili e lunghe feritoie verticali per l’uso di balestre e  dalle sue sommità e dalle torri potevano essere lanciati ogni sorta di proiettili sugli assedianti.
Il sistema costruttivo è accurato e nel contempo robusto. Un dato è certo: l’edificio mostra differenti tecniche e materiali lapidei nelle tessiture murarie a testimonianza di un’evoluzione costruttiva nel corso del tempo. Interessanti le rare parti con pietre a spina di pesce, che si ritrovano simultaneamente nel muro esterno della sagrestia della chiesa prepositurale di Dervio (lato nord), nel Castelvedro sopra Dervio e in mura medioevali fra le case di Castello (D. Acerboni). Questa è una tecnica muraria capace di usare pietre anche piccole non lavorate sulle facce denominata opus gallicum. Nella fortificazione si è fatto anche largo uso del sistema costruttivo “opus quadratum”: blocchi di pietra squadrati a forma di parallelepipedi ed usati particolarmente per la formazione degli spigoli. Questo sistema si adattava perfettamente agli edifici di pianta geometricamente regolare e generava nel contempo una perfetta stabilità ed una emotività estetica data dall’armonia delle linee strutturali orizzontali e verticali. (cfr. approf. 1.)

Le due torri
Castello di Corenno - Torre SudVerso il Lario, a protezione dell’ingresso, svetta una torre a vela che si contrappone alla torre massiccia di pianta quadrata sita a monte. Questa possente torre quadrangolare che insiste su uno sperone roccioso non è immorsata al resto dell’edificio. Ciò denota palesemente che non è coeva delle mura. Alcuni studiosi come Luigi Mario Belloni[1] sostengono che sia anteriore alle attuali mura e che sia un avanzo della fortificazione del borgo di epoca comunale inglobata nella fortificazione signorile trecentesca. Fonda questa affermazione sul fatto che la sua altezza fu certamente ridotta quando le furono sovrapposte i merli e che la tipologia della muratura e le piccole finestre quadrate disassate, una per lato che vi si aprono a circa metà altezza, denotano chiaramente questa anteriorità. Anche altri studiosi[2] affermano che la torre sia anteriore all’attuale cortina muraria e la fanno risalire al secolo XI. La presenza di ampie aperture quadrangolari per postazioni di arcieri con arco e la mancanza di feritoie strette per le balestre potrebbe far propendere per una sua anteriorità rispetto alle attuali mura. Non mancano però altri studiosi che affermano che sia posteriore all’attuale cortina muraria. Per la sua ubicazione ha svolto la funzione di avvistamento e difesa dalle soldataglie provenienti da nord che attraverso la mulattiera che sale in Valvarrone passavano in Valsassina per scendere a Lecco e proseguire verso la pianura.

La torre a valle, pure merlata e tangente all’ingresso, è coeva alle mura di cinta perché presenta lo stesso sistema costruttivo ed è immorsata alla struttura laterale della muratura. La torre è stata costruita a difesa dagli attacchi provenienti dal lago, per l’avvistamento e la comunicazione su ampia zona lacustre, in modo particolare con la torre del castello-recinto di Rezzonico. L’entrata a cui si accede salendo una breve pendenza a gradini, è costituita da un gran portone ad arco tondo sormontato da uno stemma in marmo bianco dei conti Andreani.

Finalità della fortificazione
La fortificazione di Corenno era analoga a quella di Bellano andata distrutta e più volte citata nel poema anonimo sulla guerra decennale tra Milano e Como tra 1118-1127. Nello scacchiere orientale del Lario sorgevano similari difese a Lierna e a Mandello del Lario, mentre in quello occidentale a  Gravedona, Bellagio e  Menaggio. A Lierna il castello si ergeva sulla penisoletta chiamata ancor oggi “Castello”. Mandello invece possedeva una grossa torre a lago cinta da mura e fossato che ancora nel settecento era destinata alla sede della Pretura.

La scelta a Corenno di una fortificazione isolata a fianco dell’abitato invece di mura che circondano tutto il borgo si deve soprattutto a motivi economici e strategici. Infatti il perimetro del castello-recinto era molto inferiore a quello dell’abitato per cui richiedeva di minor tempo e materiali per edificarlo. Questo tipo di fortificazione consentiva il salvataggio delle persone e degli animali a discapito delle casupole e dei pochi beni abbandonati perché gli eserciti di passaggio depredavano i borghi e le coltivazioni, ma non avevano interesse ad uccidere gli abitanti. Spesso al saccheggio dell’abitato seguiva l’incendio: in questo caso, il fumo e le fiamme sarebbero rimaste lontano dal fortilizio. Le case del borgo, se vicine alle mura, sarebbero servite al nemico per assaltare il fortilizio o per difendersi. Il castello recinto era più facile da controllare a vista onde evitare tradimenti o penetrazioni occulte. Inoltre, sorgendo fuori dall’abitato, poteva svolgere la funzione di controllo delle vie di comunicazione e segnalare il pericolo incombente. In un certo senso il castello-recinto è una cassaforte d’emergenza per gli abitanti, il bestiame, le derrate alimentari  al servizio della comunità.

A completare la difesa del borgo dove ora corre la strada provinciale vi era un fossato con acqua come segnalano anche gli Statuti Medioevali del 1389. Questo vallo è stato riempito nel 1830 quando venne costruita dagli austriaci la strada militare dello Stelvio fino a Milano. Inoltre, ancora nel 1860, esistevano, all’angolo del palazzo degli Andreani, i cardini della porta che chiudeva il borgo e la mensola di sostegno dell’arco che la sovrasta

Anche le strette e ripide scalinate scavate direttamente nella roccia su cui è adagiato tutto il paese che scendono al lago, anticamente dette callogge, in caso di pericolo venivano chiuse da porte di cui rimangono tracce. A difesa di eventuali attacchi esistevano agli incroci delle vie alcune porte massicce da chiudere in caso di necessità. È ancora visibile qualche loro cardine

La datazione
La Zecchinelli fa risalire il manufatto al XIV secolo anche se si può ipotizzare che, almeno le mura, risalgano al secolo precedente in quanto dovevano giocoforza, esistere o in corso di costruzione quando il castello venne infeudato a Fossato Andreani nel 1271 dall’arcivescovo di Milano Ottone Visconti. Negli atti di un convegno sulle fortificazioni del lago di Como, tenutosi a Varenna nel maggio del 1970, anche Carlo Perogalli presenta la struttura di Corenno come “castello-recinto attribuibile al XIV secolo.

Roberto Pozzi

Approfondimenti
Il sistema costruttivo delle fortificazioni
Il termine “Castello”
Indagine Archelogica dell’Area

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[1]  L.M. Belloni, et alii, Castelli, basiliche e ville, pg.80, La Provincia s.p.a. editoriale, 1991
[2]
 Cfr. Dervio. Archeologia nel castello di Corenno di R. Caimi, S. Lincetto, M. Redaelli, in carta archeologica della provincia di Lecco, Aggiornamento 2009.

Dervio: Corenno Plinio
Inquadramento Storico

domenica, Gennaio 1, 2012 @ 02:01 PM
aggiunto da admin

Il periodo tra la fine  Duecento e il Trecento, è il più glorioso della storia di Corenno e di tutti i comuni della Riviera, e in genere di tutta la Lombardia e dell’Italia settentrionale. È il secolo di Dante, Petrarca, Boccaccio e Giotto. È infatti in questo periodo che giungono a maturazione  l’identità sociale, il senso di appartenenza collettivo, la memoria comunitaria, e, soprattutto la fiducia nelle istituzioni che caratterizzano questa parte d’Italia e che spiegano lo sviluppo e il progresso successivo fino ai nostri giorni. Allora non esisteva l’idea di nazione, che verrà imposta solo successivamente per interesse delle classi dirigenti. Esisteva la comunità locale autonoma con:

  • le istituzioni, (il Consiglio comunale), le leggi (gli Statuti), e l’amministrazione della giustizia che parte dall’obbligo per tutti gli abitanti di denuncia dei reati
  • le proprietà comunitarie: terreni, boschi, rive e lago
  • gli edifici comunitari: la casa della giustizia, la chiesa, i moli, le strade, le fontane, il lavatoio
  • il lavoro comunitario come la soccida, la vendemmia, il mantenimento del molo e delle strade, e probabilmente, la latteria comune nell’alpeggio
  • la difesa collettiva con il castello recinto e i portoni che chiudevano le vie d’accesso al borgo dal lago.
  • gli obblighi/impegni religiosi: il riposo festivo dal sabato sera, la partecipazione ai funerali e ai riti delle rogazioni, l’attività giornaliera scandita dal suono della campana e dal calendario strutturato sulle feste religiose.
  • I servizi pubblici appaltati come il trasporto sul lago, con tariffe stabilite dalla comunità. Qui è da notare un’attenzione sociale o welfare, in caso di funerali e matrimonio il servizio era gratuito.

I segni e i simboli del borgo medioevale sono oggi visibili nella chiesa e nella raffigurazione dei santi, cioè il collante simbolico religioso e nelle fortificazioni, il collante civile-simbolico della comunità.

La chiesa conserva l’affresco quale segno di identificazione legato al patrono, alla confraternita con il suo santo protettore, come i club sportivi di oggi. La gente si definisce come devota di san Rocco, di san Sebastiano o di sant’Apollonia. Il santo diventa l’occasione della festa e della celebrazione e un punto di riferimento nei momenti di crisi. Per questo si fanno i voti collettivi e le processioni comunitarie per impetrare, per esempio, l’acqua per le coltivazioni oppure l’allontanamento della peste.

Chiesa e fortificazioni fanno riferimento alle due anime che hanno costituito la storia del Medioevo locale. Esse diventano i simboli di questa rete di sostegno che garantisce la convivenza civile e disciplina i rapporti sociali definendo diritti e doveri dei cittadini e delle famiglie, prima ancora della loro incolumità fisica. Vita religiosa e vita civile si intrecciano: per motivi religiosi si facevano anche le guerre (basti pensare alla famosa Guerra decennale tra Milano e Como dal 1118 al 1127 che scoppia anche per dissensi religiosi), ma anche per motivi politici si erigono le chiese o si consacrano a un certo santo (la prova è la chiesa a S. Tommaso Becket dedicata proprio a lui perché si era opposto al re Enrico II, nemico del papa).

Sono in molti oggi a riconoscere che alla base del maggior sviluppo delle regioni del Centro Nord ci sia la maggior dotazione di risorse di capitale sociale che comincia a costituirsi in questi secoli. Per capitale sociale si intende la fiducia, le norme che regolano la convivenza, le reti di associazionismo che facilitano la cooperazione spontanea. Questo capitale sociale è una risorsa che innesca il processo di sviluppo economico di una comunità, che forte della sua identità, si apre allo scambio con le comunità vicine e lontane.

È interessante ripercorrere lo statuto del 300/400 per evidenziare questo aspetto, cioè la fiducia nelle persone e nelle istituzioni e la collaborazione tra tutti i cittadini come base della comunità.

Gli aspetti economici e culturali
Sfogliando lo Statuto del comune di Dervio e di Corenno del 1389 e gli atti notarili di questo periodo, ci si rende conto del discreto sviluppo economico e culturale di queste piccole comunità: non si trattava più un’economia di sussistenza, ma una moderna economia fondata sull’agricoltura, sull’allevamento, sullo sfruttamento del bosco, sulla pesca, sulla caccia e sull’artigianato e sul commercio.

Un aspetto importante della vita della comunità era l’appalto dei beni comunitari a beneficio del Comune: il lago per la pesca, il bosco per il legname, le tense per la caccia agli uccelli, il trasporto pubblico sul lago e alcune cariche e servizi pubblici. È sufficiente scorrere l’elenco delle merci che erano imbarcate nei cinque moli tra Dervio e Corenno per comprendere la solidità di questa economia. Si commerciavano bestie di ogni tipo (cavalli, mucche, volpi, pecore, pollame, sparvieri), cereali, (frumento, segale, miglio, panico), legumi, castagne, noci, nocciole, lino, canapa e lana. Per i metalli si parla di stagno, di ferro, di rame; di carbone ottenuto con la legna, di mattoni, legnami, piode.
Oltre a queste materie prime vi erano i manufatti dell’artigianato: stoffe di lino, di fustagno, di lana, vino, olio, miele, prodotti lattei e pelli.

Roberto Pozzi

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Roberto Pozzi: Presentazione

domenica, Gennaio 1, 2012 @ 01:01 PM
aggiunto da admin

Roberto PozziRoberto Pozzi nel passato ha insegnato per 12 anni in Cile, dove si è laureato in psicopedagogia e poi in Italia presso istituti superiori. Ha lavorato come consulente in alcuni istituti e come educatore di adulti (genitori, insegnanti ed educatori) in una cooperativa sociale di Como. Ha concluso la sua vita lavorativa come direttore di un centro di formazione professionale. Ha pubblicato cinque libri su temi etnografici e di storia locale legati a Dervio e dintorni, un romanzo e racconti ambientati nel medioevo locale I suoi interessi come studioso e divulgatore si muovono dalla storia all’arte locale, dagli aspetti religiosi e teologici a quelli sociali ed etnografici. Attualmente collabora con lezioni nelle scuole, con relazioni ad associazioni sulle medesime tematiche e con il museo della Civiltà contadina di Colico.

Le Castagne come “Pane dei Poveri”

domenica, Gennaio 1, 2012 @ 01:01 PM
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cucina castagneIl castagno per secoli ha sfamato con i suoi frutti intere generazioni ed ha costituito la base alimentare delle popolazioni rurali che in esso trovavano rimedio a carestie e povertà.
Il ciclo reimpiegava tutte le risorse: le castagne buone erano nutrimento per l’uomo, quelle guaste per gli animali, le scorze si usavano l’anno successivo per alimentare il fuoco dell’essiccatoio, le foglie come lettiera per il bestiame nelle stalle;i ricci venivano messi nella zoca: un buco nel terreno con funzioni di torbiera dove i ricci marcendo sarebbero diventati concime per gli alberi. Il suo legname serviva a riscaldare i casolari, forniva tannino per la conciatura delle pelli e materia prima per costruzioni e attrezzi di uso quotidiano.
Le castagne per il loro basso costo, l’alta reperibilità e l’elevato potere nutritivo venivano utilizzate come alternativa ai cereali, sostituivano spesso il pane di segale, da cui il nome di “pane dei poveri” ed è proprio in questa lotta per la sopravvivenza che i poveri hanno imparato ad utilizzare e cucinare le castagne nei più svariati modi.

I modi di cottura erano molto semplici: le castagne venivano lessate in pentola con acqua o arrostite con una padella bucata. Chi ne aveva la possibilità le cuoceva anche al forno.
Quando le castagne erano pronte, la padella veniva posta sull’angolo del focolare e tutti i familiari si disponevano attorno a sbucciare e preparare le belle mondine gustose e saporite.Tra i modi antichi di cucinare le castagne ricordiamo:
Castègn e làcc: castagne essiccate, sbucciate e lessate in acqua salata con l’aggiunta di qualche seme di finocchio. A cottura ultimata si mettono in una tazza con latte e zucchero.
Castègn e patati: in una pentola con acqua calda salata si cuociono castagne essiccate e pezzi di patate.
Buröll: sono le caldarroste abbrustolite fresche sulla fiamma del fuoco. Prima di toglierle dalla padella si usa farle “masarà” (inumidirsi) coperte da foglie di verza.
Peladèi: le castagne fresche e più grosse vengono sbucciate lasciando però la pellicina e si fanno lessare in acqua salata con semi di finocchio.

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Leggende sulle Castagne

domenica, Gennaio 1, 2012 @ 01:01 PM
aggiunto da admin

La storia è ricca di credenze e leggende sugli episodi e sulle cose spicciole, di tutti i giorni: il castagno, in quanto elemento molto presente nel panorama botanico italiano e la castagna, come elemento base di sussistenza per i poveri di numerose generazioni, non sono sfuggiti a questo fenomeno. Di seguito sono presentate alcune leggende e curiosità:

Perché le castagne hanno il riccio
Tanto tempo fa, le castagne non avevano il riccio, ma erano appese ai rami come le mele. Un giorno tre castagne decisero che quell’inverno non volevano soffrire né il caldo né il freddo ed andarono dal castagno più vecchio per farsi dare un consiglio. Arrivate da lui gli chiesero:

Come fare a non soffrire né il freddo né il caldo?
– l’albero rispose:
Dovete chiamare i ricci del bosco e dire loro di portare gli amici morti- Le castagne fecero come aveva detto loro il grande castagno: i ricci portarono gli amici morti, tolsero loro la pelliccia spinosa e la avvolsero sulle castagne. Da quel giorno le castagne ebbero il riccio.

La leggenda di Sant’Antonio
Centinaia di anni fa, quando c’era molta povertà, a Sant’Antonio, in Val Masino, viveva una povera donna con i figli. Il problema principale era cercare un po’ di cibo per sfamare i suoi bambini. Un brutto giorno, non riuscì a trovare niente; così, vedendo la fame dei propri figli, non seppe far altro che prendere una pentola, riempirla di sassi e metterla sul fuoco, fingendo che fossero castagne. Mentre l’acqua bolliva, cercò di distrarre i bambini raccontando loro le cose più strane, sperando così di addormentarli facendo loro dimenticare, per quella sera, la cena. La fame, però, aveva continuamente il sopravvento spingendo i bambini a chiedere alla madre se le castagne fossero cotte. Ormai i sassi cuocevano da molto tempo e la donna decise di raccontare la verità ai figli. Prese la pentola dal fuoco e, posandola per terra fece avvicinare i bambini: con grande stupore vide che i sassi si erano tramutati in castagne. Così la poveretta, almeno per quel giorno, riuscì a sfamare i suoi piccoli.

Perchè il frutto della castagna si apre a croce?
Un’antica leggenda narra di un piccolo paese di montagna i cui abitanti molto poveri non avendo di cui mangiare si rivolsero a Dio pregandolo di dar loro di cui sfamarsi. Il buon Dio sentite le loro preghiere diede loro una pianta da cui poter raccogliere frutti nutrienti da poter mangiare, il castagno; ma il Diavolo visto quello che Dio aveva fatto, per impedire che la gente potesse raccogliere i frutti, li avvolse in un guscio spinoso. Presi dallo sconforto gli abitanti del piccolo paese ritornarono nuovamente a pregare Dio ed egli sceso in mezzo a loro fece il segno della croce: i gusci spinosi come per miracolo si aprirono, e da quel giorno, quand’è periodo, i frutti di questa pianta si aprono a croce.

La leggenda del castagno
Gli uomini della montagna, esasperati dalla scarsità di cibo, decisero di scendere a valle dove tanti e fecondi erano i frutti della terra. Ne informarono S. Ubaldo che viveva fra loro per evangelizzarli; il sant’uomo tentò di convincerli che a valle vi era sì abbondanza di cibo, ma anche nebbia e malaria. I montanari erano irremovibili. A S. Ubaldo non rimase altro da fare che inginocchiarsi e pregare Dio affinché mandasse a quella gente il pane.
Si trovava sotto un grande albero frondoso e, al termine della preghiera, volse in alto lo sguardo: subito dall’albero si staccò un frutto che cadde al suolo. Curiosi gli uomini lo raccolsero ma rimasero delusi vedendo che era ricoperto di spine. S. Ubaldo però non si perse d’animo, benedisse la piccola sfera spinosa e quella improvvisamente si aprì a croce svelando tre piccoli frutti scuri e rotondi.

Il Castagno dei Cento Cavalli
castagno dei 100 cavalliE’ un albero di castagno plurimillenario, ubicato nel Parco dell’Etna in territorio del comune di Sant’Alfio. Avrebbe dai due ai quattro mila anni di vita , è l’albero più antico d’Europa ed il più grande d’Italia. Misura circa 22 mt di circonferenza del tronco, per 22 mt d’altezza. Nel 1923 il tronco principale dell’albero fu intaccato da un incendio, che, secondo una non comprovata tradizione orale, sarebbe stato appiccato per ritorsione da alcuni abitanti di Giarre, cui era invisa l’autonomia amministrativa ottenuta dal paese di Sant’Alfio (proprio dal comune giarrese).
Il fondo dove sorge il castagno era di proprietà di alcune famiglie del notabilato locale e venne usato come luogo di conviviali e banchetti per ospiti illustri. Nel 1965 l’albero fu espropriato e dichiarato monumento nazionale. Solo alla fine del XX secolo alcuni enti locali hanno avviato una serie di studi per tutelare e conservare il castagno.

La sua storia si fonde con la leggenda…
Si narra che la Regina Giovanna I d’Aragona con al seguito cento cavalieri e dame, coi loro cavalli, fu sorpresa da un temporale durante una battuta di caccia nelle vicinanze dell’albero e proprio sotto i rami trovò riparo con tutto il numeroso seguito. Il temporale continuò fino a sera, così la regina passò sotto le fronde del castagno la notte in compagnia, si dice, di uno o più amanti fra i cavalieri al suo seguito.

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