Archivio categoria ‘Storia’

Proprietà e Uso delle Castagne

domenica, Gennaio 1, 2012 @ 11:01 PM
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Le castagne fresche hanno un elevato contenuto calorico (160 Kcal ogni 100 g di prodotto edibile); il saccarosio (6,7 g/100 g) è in quantità più elevata che in frumento, noci e patate ed è il principale zucchero mentre glucosio, fruttosio e maltosio sono presenti in quantità minime.
Per la ricchezza di glucidi i frutti hanno proprietà energetiche e sono perciò molto efficaci nelle astenie fisiche e intellettuali, per chi pratica sport o è soggetto a stress, mentre sono sconsigliati per i diabetici.

La farina sopperisce, nella preparazione di dolci e minestre, al fabbisogno di carboidrati anche nei soggetti che presentano intolleranza ai cereali.La corteccia e il legno del castagno, come la pelle dei frutti, contengono un’alta percentuale di tannino e le loro proprietà sono di tipo astringente. Per questo sono raccomandate le castagne secche nella cura delle diarree.Le foglie del castagno in infusione sono utilizzate per curare tossi e bronchiti.
L’acqua in cui sono state cotte delle castagne puo’ essere usata dopo lo shampoo per esaltare i riflessi dei capelli biondi.
Al forno o bollite, aiutano a combattere la stanchezza tipica d’inizio autunno perché sono ricche di magnesio e manganese.
Ricche di carboidrati, aminoacidi, sali, vitamine possono essere un gradevole sostituto del pane integrale. Si legano bene con verdure e ortaggi. E’ invece sconsigliata l’associazione con frutta acida, proteine animali, pane, zucchero e vino (anche se l’abbinamento è classico) perché può scatenare fenomeni fermentativi.
Non è così usuale e non a tutti può piacere il sapore della castagna cruda, ma addensa la saliva e forma anticorpi per proteggere dai malanni stagionali, tonifica i muscoli, i nervi e le vene.

Le foglie del castagno, raccolte in aprile e maggio, possono essere usate come rimedio per la tosse perché sono sedative e danno sollievo. Basta mettere in un litro di acqua bollente una manciata di foglie essiccate, filtrare bene e bere l’infuso.
Il fiore verde/giallo del castagno, che sboccia all’inizio dell’estate, secondo la fitoterapia di Bach aiuta a rinascere: si chiama Sweet Chestnut ed è efficace, se ci si crede, soprattutto per restituire la speranza nei momenti di sconforto.
Si può rinforzare lo scheletro e curare i reumatismi facendo bollire in due litri di acqua due manciate di foglie fresche di castagno e una decina di ricci, per venti minuti; aggiungere il tutto nell’acqua della vasca, facendo questo bagno almeno due volte alla settimana.
La polpa della castagna, cotta e setacciata, ha un effetto emolliente se applicata sulla pelle; la corteccia dell’albero invece, incisa, staccata e fatta seccare (in primavera o in autunno, i periodi di riposo della pianta) ha un effetto astringente e decongestionante.
Il macerato di gemme di castagno, ottenuto dai tessuti embrionali in crescita della pianta è un utile ricostituente per essere più energici e ricaricarsi nei periodi di stress.

Dal legno si ricava, per distillazione, alcool metilico (spirito di legno); il legno è inoltre impiegato nella produzione di pasta di cellulosa. Sovente l’interno dei tronchi di castagno si infradicia in un composto terroso e scuro, per effetto della carie; si forma così un prezioso terriccio per giardinieri (la cosiddetta terra di castagno), che viene usato nell’invaso di piante richiedenti terreni soffici e ricchi di humus.

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La coltivazione e la raccolta delle castagne

domenica, Gennaio 1, 2012 @ 11:01 PM
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raccolta castagneIl castagno era considerato fonte di alimento fondamentale per le popolazioni della montagna.
Veniva innestato e potato regolarmente, si ripulivano le piante del sottobosco che avrebbero potuto danneggiarlo, si estirpavano le erbacce, il terreno veniva pulito, concimato, e falciato con cura. Si utilizzavano semplici attrezzi per lavorare la selva, cioè i boschi di castagni: il rastrello, la falce, la scopa  realizzata con ramoscelli di betulla.
Se gli alberi si trovavano su terreni ripidi, per favorire la raccolta delle castagne  si preparavano, in fondo alla selva, delle siepi con fascine di legna e questo per permettere alle castagne cadute di raccogliersi e non rotolare troppo in basso, disperdendosi lungo i pendii o rotolando in proprietà altrui.

La raccolta delle castagne iniziava solitamente tra la fine di settembre e la prima settimana di ottobre e continuava fino a novembre. Al proprietario della selva spettava il raccolto e, tutta la sua famiglia era impegnata nel lavoro.
raccolta castagneLa raccolta avveniva principalmente a mano. I ricci che rimanevano chiusi si battevano con l’aiuto di rastrelli (sbatador, rastrello senza denti) e bastoni (batidor, mazzuolo con manopola di traverso). Le castagne si mettevano dapprima in ceste e panieri di vimini intrecciati (cavagnöi) e in qualche piccola gerla (berla) per poi essere messe in grosse balle di juta.
La raccolta veniva fatta esclusivamente nella propria selva; nessuno osava raccogliere le castagne nella proprietà altrui, perché, colti sul fatto, si veniva allontanati con rimproveri e minacce o, addirittura, a sassate.
Chi era in possesso di molte selve ne cedeva una parte a un’altra famiglia in cambio di un modesto compenso.
Solo dall’undici di novembre la raccolta era libera e le selve erano aperte a persone e bestiame. Le persone munite di cesti e sacchi raccoglievano castagne ovunque ne trovassero; era consentita la spigolatura delle castagne nelle selve e nei prati.
Nel periodo della maggior caduta i contadini si recavano due o più volte al giorno nella selva: facevano questo lavoro per 2 o 3 settimane. Le donne avevano un piccolo sacco che legavano  alla vita e quando era pieno lo svuotavano nella gerla.
Ai ragazzi spesso veniva assegnato il compito di raccogliere le castagne: essi si recavano nelle selve muniti di ceste al mattino, prima di andare a scuola, e al pomeriggio dopo le quattro, finite le ore di lezione.

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Lavorazione delle Castagne

domenica, Gennaio 1, 2012 @ 11:01 PM
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Essiccatura delle castagne
schema essicatoioDopo la raccolta, le castagne venivano portate all’essiccatoio (caselèt di castegn o secadùu) a seccare sui graticci (graa): era una piccola baita in muratura, formata da quattro muri in pietra, un tetto solitamente coperto da paglia, per esigenze di tiraggio, ma talvolta anche da lastre di pietra, con un alto locale diviso a metà in verticale da un pavimento formato da un graticcio (da qui il nome graa) sul quale venivano sistemate le castagne. La graa era formata da una serie di travi come quelle che sostengono i soffitti delle abitazioni normali, poste a un’altezza da terra che varia dai due metri e mezzo fino ai tre metri.
Sulle travi si posavano senza fissarli listelli di nocciolo (scudech) o rami di castagno (come nell’essiccatoio di Genico a Lierna), collocandoli abbastanza vicini per impedire la caduta delle castagne, ma abbastanza distanti per consentire il passaggio dell’aria calda, generata dal fuoco che veniva poi acceso a terra.
Le dimensioni dell’essiccatoio variavano da 2 a 4/5 metri di lato in rapporto alla quantità di castagne che il fondo poteva produrre, e potevano contenere circa 10/15 gerle da 30 kg di castagne, circa 4 quintali.
L’essiccatoio poteva essere ad un solo vano e in questo caso le castagne venivano scaricate vada una finestra esterna, aperta più in alto del graticcio. Se invece presentava un vestibolo nel quale si potevano depositare attrezzi, vestiti da lavoro, cibarie ecc., la graa era accessibile da questo con una scala a pioli.
Via via che la raccolta procedeva le castagne venivano scaricate sul graticcio e distribuite a formare uno strato uniforme. Lo strato delle castagne sul graticcio non doveva essere inferiore ai 40 cm, perché una parte del calore si sarebbe dispersa senza essere utilizzata, e non doveva superare i 60 cm perché la temperatura nella zona superficiale non sarebbe stata sufficiente all’essiccamento e l’umidità prodotta dalle castagne avrebbe favorito il rapido sviluppo di muffe.

funzionamento essiccatoioL’essiccamento avveniva in questo modo: nel locale sottostante c’era un braciere dentro il quale si mettevano a bruciare grossi ceppi (sciòcch) mescolati alle bucce secche delle castagne (pell di castegn) dell’anno precedente per soffocare la fiamma. Il calore distruggeva in breve le larve della Carpocapsa splendana (verme delle castagne). Ceppi e bucce alimentavano il fuoco, le bucce regolavano la combustione dei ceppi in modo che “el brasàss “, cioè bruciasse senza fiamma, ma con tanto fumo.
Il fuoco doveva funzionare regolarmente e produrre fumo per dare alle castagne il giusto aroma. Se si sviluppava una fiamma troppo alta le castagne bruciavano; se il calore era troppo scarso, le castagne non essiccavano bene e rischiavano di ammuffire nel corso dell’inverno.

Nei tempi precedenti la prima guerra mondiale la maggior parte delle famiglie andava a vivere nell’essiccatoio portando con sé soltanto la padella per fare le caldarroste, il paiolo per far bollire le castagne e il bariletto per l’acqua; per tutta la durata della raccolta non mangiava altro.
Attorno al rustico focolare si raccoglieva un tempo l’intera famiglia e, mentre si seguiva con attenzione l’essiccamento delle castagne, si cucinava nella marmitta appesa alla catena che pendeva dalla graa.
L’essiccatura delle castagne era un’operazione piuttosto difficile perché occorreva girare spesso i frutti per non farli seccare troppo.
La durata dell’essiccazione variava dai 20 ai 30 giorni. Dopo le prime due settimane di fuoco si procedeva al rivolgimento delle castagne sul graticcio. Le castagne venivano scaricate dalla graa avendo l’avvertenza di tenere grossolanamente divisi lo strato superiore da quello inferiore in modo da poterla ricaricare in posizione invertita. Le operazioni di essiccazione poi riprendevano fino a completamento. Piccole quantità di castagne si potevano essiccare anche in casa: si mettevano nei cesti e si appendevano nella cappa dei camini così che ricevevano calore e fumo. Oppure si realizzava un ripiano di scodech come prolungamento della mensola del camino che fungeva da piccola graa.

filet castagneUn altro sistema per conservare le castagne era la produzione di filét. Il filét si faceva infilando le castagne fresche con uno spago; in questo modo, si formava una collana anche molto lunga che veniva poi essiccata appendendola a una parete o sui balconi.

Un altro metodo di essiccazione era l’uso del caniccio o metato. Il caniccio era una sorta di piccola casetta, dove a livello del terreno era sempre acceso un fuoco di legna di castagno e a circa 2 metri di altezza erano poste le castagne ad essiccare su un piano costruito da pali, sempre di castagno. In questo modo con il calore del fuoco sottostante le castagne in circa 20 giorni si essiccavano.

Pestatura e Vagliatura delle Castagne
pestatura castagneQuando le castagne erano secche si procedeva alla battitura per separare il frutto dalla buccia secca.
Radunati intorno ad un grande ceppo o vicino ai gradini della abitazione,  i proprietari delle castagne cominciavano ad infilarle in speciali “sacch de tela de ca”, tessuti appositamente con canapa grossa affinché fossero più robusti possibile.
Erano stretti e lunghi 60/70 centimetri, alla estremità interna venivano cucite due palle di stracci, si riempivano a metà poi, uno per mano, venivano battuti sul ceppo o sui gradini con movimenti ritmici da tutti i partecipanti.
Dopo una decina di minuti i sacchetti venivano svuotati e si procedeva all’altra importante operazione: la vagliatura. Con il val, cesto semipiatto a largo ventaglio che, tenuto per i manici e scrollato con gesti sapienti, con un’operazione faticosa e monotona, faceva cadere la scorza per terra, mentre le castagne restavano al suo interno. Il vaglio veniva usato dalle donne che, con abilità, lo agitavano con brevi e rapidi movimenti ritmici in alto e in basso, a destra e a sinistra.
La mazza o spadija era un ceppo cilindrico o quadrato di quasi mezzo metro di diametro o lato, spesso 15-20 cm e munito di un manico ricurvo. La faccia inferiore aveva una superficie dentata con sporgenze a forma di tronco di piramide. Veniva manovrata abilmente con un movimento ritmico, simile a quello del pendolo.

Terminata l’operazione di vagliatura la castagna doveva presentarsi senza la pellicina e questo significava che il lavoro era stato fatto bene.
Non sempre si usava battere le castagne con i sacchetti di tela di canapa. A volte si usava un grosso ceppo di castagno scavato al centro a mo’ di mortaio e si battevano dall’alto in basso con il pesta castegn: un apposito pestello di legno, verticale con una traversa per manopola, in fondo al quale erano conficcati dei chiodi che servivano appunto a rompere il guscio delle castagne.
Altre volte questa specie di mortaio era costituito da una grossa pietra scavata, la cosiddetta pila. Tuttora se ne trovano alcune in disuso anche nelle nostre frazioni, a volte utilizzate come fioriere.

Cernita delle Castagne
castagne biancheL’ultima operazione di cernita, eseguita in genere dalle donne, veniva fatta più tardi durante le sere autunnali, spargendo le castagne su grandi tavoli per selezionare le castagne a seconda delle dimensioni e dello stato di integrità dopo la pestatura, per eliminare quelle marce o intaccate dal verme che venivano date ai maiali o, bollite, alle mucche, e per togliere i residui di sansa (camisa).

Le castagne venivano anche passate in appositi setacci  a trame differenti appesi alle travi dei soffitti, per ripulirle definitivamente dai residui: quelle che avevano ancora il guscio o la pellicina interna dovevano essere battute un’altra volta.

Infine si mettevano da parte, riposte in apposite cassapanche, quelle bianche e grosse, divise in due parti a seconda della pezzatura in quanto quelle più grosse impiegavano più tempo a bollire.

Le “castagne bianche” erano il prodotto finale, pronte per essere utilizzate per tutto l’inverno: insaccate e vendute, andavano a formare la parte più consistente del misero reddito dei contadini, mentre, cucinate, ne costituivano la base alimentare.

La Farina di Castagne
macinatura castagneMacinate in mulini ad acqua con macine di pietra opportunamente scanalate, le castagne diventavano una farina da impiegare come succedaneo delle più costose farine di cereali nella preparazione di polenta, focacce, pasta e zuppe.
Generalmente la farina di castagne veniva adoperata aggiungendo acqua ed un pizzico di sale e dopo un’opportuna amalgamatura era pronta per i diversi tipi di cottura ed era ingrediente di base per molti piatti poveri tipici del Lario e, più in generale, di tutte le zone in cui il castagno è diffuso.

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IL SENTIERO DEL VIANDANTE
Cenni Storici

domenica, Gennaio 1, 2012 @ 10:01 PM
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sdv gradini scavati nella rocciaL’attuale denominazione è stata coniata nel 1992 dall’Azienda di Promozione Turistica del Lecchese che ha riscoperto e sistemato, a uso turistico ed escursionistico, l’antico percorso che univa Lecco all’inizio della Valtellina utilizzando una dizione presente ad Abbadia e Mandello almeno dal 1859.
Quello che oggi chiamiamo Sentiero del Viandante era infatti originariamente un sistema viario non univoco, formato da sentieri chiamati con nomi diversi (via Ducale, via Regia, Strada dei Cavalli, via dei Viandanti, Napoleona) che collegavano localmente tra loro i vari borghi senza nessuna velleità di sviluppo viario unitario: i grandi traffici commerciali avvenivano infatti utilizzando la più comoda via lago, sfruttando i venti costanti che alla mattina spirano da nord verso sud e al pomeriggio in senso contrario.
Questo sistema di sentieri veniva invece usato dai viandanti, dal piccolo commercio locale, per piccoli spostamenti, come collegamento tra le varie roccaforti e torri di avvistamento dislocate a mezzacosta lungo il lago: infatti, fino all’inizio dell’Ottocento, la via migliore per raggiungere la Valtellina era considerata quella che da Lecco saliva a Ballabio, percorreva la Valsassina e raggiungeva Bellano, dove si ricollegava al percorso lungo la sponda del lago.

Nel 1606 l’ingegner Tolomeo Rinaldi fu incaricato dal governatore spagnolo del Ducato di Milano, il duca di Fuentes, di progettare una strada che unisse Milano al Forte di Fuentes, appena costruito vicino a Colico a difesa del confine con i Grigioni. L’ingegnere scartò l’ipotesi di sistemare la strada sulla sponda occidentale, ritenendola disastrata e troppo costosa da allargare per consentire il passaggio di un cavallo someggiato; scartò anche, a causa delle difficoltà dovute alla complessa orografia, l’idea di proseguire oltre Bellano lungo il percorso rivierasco e propose di seguire la via della Valsassina: che questa, tra Lecco e Bellano, fosse la via più facile, anche se non la più corta, è attestato anche dal fatto che fu scelta nell’autunno del 1629 dai Lanzichenecchi (28.000 uomini) al servizio dell’imperatore Ferdinando II d’Asburgo diretti, attraverso il Ducato di Milano, all’assedio di Mantova .
Il loro passaggio per queste terre è ricordato da Manzoni alla fine del capitolo XXVIII dei Promessi sposi: “Colico fu la prima terra del ducato, che invasero que’ demoni; si gettarono poi sopra Bellano; di là entrarono e si sparsero nella Valsassina, da dove sboccarono nel territorio di Lecco”.

Anche se non era considerata la migliore e  frutto di un progetto non unitario, una via di terra lungo la sponda orientale del lago di Como doveva esistere: lo storico Pietro Pensa la fa risalire all’epoca romana, ma secondo altri (ad esempio secondo Albano Marcarini) si tratta solo di una congettura. Nei documenti medievali dei comuni di Bellano, Dervio e Lecco (fine del XIV secolo) si fa riferimento a una strada pubblica costiera, ma si tratta, come dice ancora Albano Marcarini, di “citazioni frammentarie anche se interessanti”. Al 1606 risale il mai attuato progetto di sistemazione dell’ingegner Rinaldi. In alcuni documenti notarili del Settecento si fa riferimento, per un lungo tratto del percorso, a una via Regia o Ducale ma tale strada non è menzionata sui documenti cartografici dello stesso secolo (che però trascurano anche la Strada Regina). Durante l’epoca napoleonica (1796-1815) alcuni tratti dell’itinerario verranno sistemati o migliorati (da questo deriva il nome di Napoleona con cui la via è nominata in alcuni tratti).

Dopo la costruzione della strada militare lungo la riva del lago, inaugurata nel 1832, i vecchi percorsi perdono di importanza e cadono nell’oblio, per essere in seguito riscoperti, nella seconda metà del 1900, a scopo turistico.

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Fonti
Albano Marcarini, “Il Sentiero del Viandante”
APT Lecco, “Sentiero del Viandante”

Il Castagno

domenica, Gennaio 1, 2012 @ 09:01 PM
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Specie Castanea Sativa, appartenente, insieme alle querce e ai faggi, alla famiglia delle Fagaceae.
Originario dell’Asia Minore e introdotto in Europa Occidentale dai Romani, è un albero longevo, alto in media dai 15 ai 20 metri, capace di raggiungere anche 30-35 m di altezza e 6-8 m di circonferenza.
E’ presente nelle regioni montuose temperate fra i 300 e i 1000-1200 metri, a seconda della latitudine. Amante del sole pieno, vegeta meglio in posizioni esposte a nord/nord-est poiché meno soggette ai periodi di siccità estivi e con minori escursioni termiche. Vive di norma in zone con almeno 30 mm di piogge nei mesi estivi: con meno precipitazioni la produzione può essere fortemente ridotta. Il castagno esige una temperatura superiore a +10°C per almeno sei mesi. Resiste, comunque, bene alle basse temperature invernali (anche –20-25°C).
Le foglie sono caduche, la forma è ellittico-lanceolata, dentate ai bordi, misurano da 8 a 20 cm in lunghezza e da 3 a 6 cm in larghezza.
La loro consistenza è piuttosto tenace, quasi coriacea.

Fiori Castagne
I fiori, riuniti in infiorescenze (amenti), sono formati da fiori unisessuali  che si evolvono solo a fogliazione completa; i fiori maschili sono portati in infiorescenze lunghe; i fiori femminili, solitari o aggregati in numero da 2 fino a 7, sono localizzati alla base delle infiorescenze e protetti da un involucro verde, squamoso, destinato a costituire il riccio.
La fioritura si verifica fra inizio giugno e metà luglio in funzione della latitudine e delle condizioni stagionali.  I frutti (acheni), sono generalmente 3 inclusi in un riccio spinoso. I laterali sono emisferici mentre quello centrale è appiattito per cause genetiche ed anche per la posizione all’interno del riccio.
Le castagne vuote sono dovute ad una cattiva impollinazione

CULTIVAR MARRONI: Caratterizzati da frutti grossi, di forma quadrangolare, in cui la pellicina (episperma) non penetra all’interno. Presentano anche un solo frutto per riccio.La buccia è marrone più o meno scuro con strisce evidenti.
CASTAGNE: frutti poliembrionici in cui la pellicina penetra all’interno. Di questo gruppo fanno parte numerosissime varietà che prendono nomi diversi, anche dialettali, a seconda della zona.
MARRONI FRANCESI: alcuni sono di probabile origine italiana per cui le caratteristiche salienti sono del tutto simili a quelle dei Marroni italiani.
CULTIVAR IBRIDE: ottenute per incroci fra le cultivar europee (principalmente francesi) e il castagno giapponese (C. crenata) e, più recentemente, cinese (C. mollissima).

Nella nostra zona si trovano :

Tempuriva o Augustana: Le prime vengono raccolte già in agosto pronte per la consumazione.Venivano raccolte quando la castagna era ancora chiusa nel riccio, la buccia era tenera e acerba. Venivano solitamente bollite con patate e semi di finocchio.
Caravina: E’ una delle più buone, dal gusto dolce.
Gualdàn: E’ una castagna di notevoli dimensioni che matura ovunque, ma non essendo innestata è di qualità scadente, non rilascia la pellicina ed è destinata al bestiame.
Marùn: E’coltivata nelle zone rivierasche, è di color marrone chiaro e di grosse dimensioni, è una delle più dolci e apprezzate.
Salvàdegh o salvadegòtt: E’ prodotta da alberi non curati né innestati ed è piccola, senza particolari caratteristiche ma molto saporita se mangiata abbrustolita.
Topia: Piccola, scura, adatta alla conservazione perchè resistente all’attacco dei parassiti.

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Abbadia: La Cappellania Rappi

domenica, Gennaio 1, 2012 @ 07:01 PM
aggiunto da admin

madonna della cintura  - san lorenzoLe famiglie facoltose, nei secoli passati, fondavano nelle varie chiese del paese cappellanìe. Mettevano, cioè, a disposizione della parrocchia una certa quantità di beni immobili, dal cui reddito si traeva il necessario per celebrare delle messe sull’altare della cappellanìa, in suffragio dei defunti delle famiglie.
Contribuivano, così, al mantenimento di un sacerdote, visto che, per l’abbondanza delle vocazioni, in ogni paese ce n’era più d’uno.
Mercoledì 1 luglio 1705, davanti al Vescovo di Como Francesco Bonesana, mentre era papa Clemente, si presenta il chierico Bartolomeo Vaccani, procuratore di Antonio Rappi figlio di Arcangelo abitante nella parrocchia di S. Lorenzo dell’Abbadia, per chiedere di istituire per maggior gloria di Dio, della beatissima Vergine Maria dei Santi, per sostenere il culto divino in detta chiesa parrocchiale, e per pregare in suffragio delle anime del purgatorio, un beneficio sotto il titolo della Madonna della Cintura, riservandosi il diritto di patronato.
A causa di tale diritto la famiglia poteva eleggere in perpetuo il cappellano che maggiormente era di suo gradimento. Per ottenere quanto chiede allega numerosi documenti come ad esempio la stima dei beni che vengono messi a disposizione, le clausole che regolano la cappellanìa, una presentazione dell’arciprete di Mandello.
Da queste carte si ricavano alcune notizie curiose. La devozione alla Madonna della Cintura era molto diffusa. All’interno della chiesa Parrocchiale (attuale chiesa rotta) si trovava l’altare con la statua della Madonna, sul quale già vantava dei diritti Giuseppe Ambrosoni, della stessa parrocchia. Egli “pretende che la cappella ove presentemente resta collocata la statua della beata Vergine della Cintura sia di lui propria”. Si decide, allora, di celebrare le messe stabilite dal legato all’altare maggiore “sino a che resti eretto l’Oratorio fisso della B.V. della Cintura, che pensano quei parrocchiani d’erigere quanto prima”. E’ desiderio comune costruire una chiesetta dedicata alla Madonna della Cintura, che poi, in realtà, non verrà mai realizzata.
La famiglia Rappi sperava conferire la cappellanìa a qualcuno dei suoi discendenti, infatti una clausola dice: “essendo presentato, ed instituito a detto beneficio qualche chierico della famiglia, questo sintanto non sarà costituito nel sacro ordine del suddiaconato, non sia tenuto a recitare l’ufficio grande, ma solo l’ufficio della B.V. Maria”. Si concede una facilitazione ai chierici che si stanno preparando al sacerdozio, imponendo loro un obbligo meno gravoso, cioè la recita dell’ufficio della Madonna e non quello solenne. Chi è investito del beneficio, deve celebrare tre messe alla settimana per tutto l’anno. Vengono citate due confraternite: quella del SS. Sacramento e quella della Madonna della Cintura. Era il modo di allora per impegnarsi nell’apostolato dei laici. Ormai le cappellanie e il diritto di patronato sono spariti in nome di una maggior libertà e indipendenza del Vescovo nel governare la sua diocesi.

Fonte: Abbadia Oggi – 21 Gennaio 1994

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Il sistema costruttivo delle fortificazioni

domenica, Gennaio 1, 2012 @ 03:01 PM
aggiunto da admin

Il sistema costruttivo delle fortificazioni-recinto è caratteristico. Si fa ampio uso del pietrame misto, allo stato naturale, e appena sbozzato con il martello con presenza anche di ciotoloni di fiume. La tecnica e l’uso del materiale è quello descritto nel “memoratorio” liutprandeo, forse estratto o riassunto di un capitolato di appalto per lavori edili del tempo. Anzitutto l’antica misura era il piede liprando, corruzione probabile di Liutprando, equivalente a 0,4462 m. Ed in piedi sono date le misure memoratorio: ad esempio la muratura “qui usque ad pedem sit grossus”. In Lombardia, più tardi si usò il “braccio milanese” composto di dodici once e 144 punti, ed era equivalente a circa 0,595 m. Il rapporto tra il piede liprando e quello lombardo è di circa tre quarti.

La materia prima dell’arte muraria era costituita dai materiali: pietra, laterizio, leganti e legnami. I leganti fino dagli antichi tempi erano o la calce o il gesso. Gli egiziani usavano il gesso non avendo lo stillicidio delle precipitazioni atmosferiche. I greci e i Romani perfezionarono l’uso della malta di calce (Catone il Vecchio, Plinio, Vitruvio). I Romani furono facilitati rispetto ai greci per l’approvvigionamento della pozzolana, materiale indicato per il miglioramento della calce che la rende idraulica, assai resistente all’azione dilavante delle acque e della neve.

Nel Medioevo e fino al secolo scorso si ebbero ben pochi progressi nei leganti impastando solo la malta di calce (moltam) con sabbia e acqua. La tecnica per migliorare la calce con la pozzolana verrà dimenticata nell’alto medioevo. A questa causa di degrado va associato l’impiego di materiale lapideo senza accurata riquadratura alla maniera dell’opus gallicum quindi con maggior impiego di malta. Ricordiamo che la muratura in pietrame del medioevo era di due tipi: l’opera romanese e l’opera gallica a secondo dell’impiego delle pietre: squadrate le une, quasi allo stato naturale le seconde. Non è ricordata nel memoratorio la muratura a secco, usata dai romani e diffusa nel medioevo soprattutto per l’edilizia militare (bastioni, torri, castelli). Le costruzioni impiegano come legante malta di calce, elastica e con scarsa capacità di aderenza. In tal modo, potevano aversi deformazioni ripartite senza il rischio di danni concentrati, smorzava il movimento degli angoli – conci in pietrame causati dalla variazione della temperatura ed inoltre aveva un gran pregio cioè la capacità di ributtare l’umidità assorbita. In quei tempi la tecnica costruttiva non faceva difetto. Per queste costruzioni per la difesa non mancavano maestranze.

I magisteri lapidum ed i magisteri lignamis costituiscono due categorie di maestri affini, con agevolazioni per le norme costruttive da seguire ed anche per agevolazioni fiscali. I compiti per l’edilizia sono codificati nel “Memoratium de mercedibus magisteri commacinorum” variamente attribuito a Gimondo, (662-671) o a Liutprando (712-744), comunque posteriore all’VIIII secolo.

Le murature ad “opus incertum” hanno il grosso vantaggio delle piccole dimensioni del materiale (le pietre) facilmente trasportabili dalla cava alla fabbrica o via terra (vecturari) o per via di acqua (lenanculari). Per modeste altezze le pietre venivano elevate a spalla con gerla o cesti, mentre la calce veniva sollevata unitamente a un truogolo. Per le torri e le murature di notevole altezza, si ricorreva all’uso di impalcature (macchine scansoriae) in legno, erette parallelamente alle fronti. Il legno veniva usato sotto forma di pertiche, di assi, di tondelli. Il ponteggio, in genere, veniva ancorato alle murature. Queste presentano fori angolari orizzontali sormontati da un piccolo architravi. Questi fori a volte inducono in errore presentandosi come feritoie. (Vianini)

Roberto Pozzi

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Dervio: Corenno Plinio
Inquadramento Storico

domenica, Gennaio 1, 2012 @ 02:01 PM
aggiunto da admin

Il periodo tra la fine  Duecento e il Trecento, è il più glorioso della storia di Corenno e di tutti i comuni della Riviera, e in genere di tutta la Lombardia e dell’Italia settentrionale. È il secolo di Dante, Petrarca, Boccaccio e Giotto. È infatti in questo periodo che giungono a maturazione  l’identità sociale, il senso di appartenenza collettivo, la memoria comunitaria, e, soprattutto la fiducia nelle istituzioni che caratterizzano questa parte d’Italia e che spiegano lo sviluppo e il progresso successivo fino ai nostri giorni. Allora non esisteva l’idea di nazione, che verrà imposta solo successivamente per interesse delle classi dirigenti. Esisteva la comunità locale autonoma con:

  • le istituzioni, (il Consiglio comunale), le leggi (gli Statuti), e l’amministrazione della giustizia che parte dall’obbligo per tutti gli abitanti di denuncia dei reati
  • le proprietà comunitarie: terreni, boschi, rive e lago
  • gli edifici comunitari: la casa della giustizia, la chiesa, i moli, le strade, le fontane, il lavatoio
  • il lavoro comunitario come la soccida, la vendemmia, il mantenimento del molo e delle strade, e probabilmente, la latteria comune nell’alpeggio
  • la difesa collettiva con il castello recinto e i portoni che chiudevano le vie d’accesso al borgo dal lago.
  • gli obblighi/impegni religiosi: il riposo festivo dal sabato sera, la partecipazione ai funerali e ai riti delle rogazioni, l’attività giornaliera scandita dal suono della campana e dal calendario strutturato sulle feste religiose.
  • I servizi pubblici appaltati come il trasporto sul lago, con tariffe stabilite dalla comunità. Qui è da notare un’attenzione sociale o welfare, in caso di funerali e matrimonio il servizio era gratuito.

I segni e i simboli del borgo medioevale sono oggi visibili nella chiesa e nella raffigurazione dei santi, cioè il collante simbolico religioso e nelle fortificazioni, il collante civile-simbolico della comunità.

La chiesa conserva l’affresco quale segno di identificazione legato al patrono, alla confraternita con il suo santo protettore, come i club sportivi di oggi. La gente si definisce come devota di san Rocco, di san Sebastiano o di sant’Apollonia. Il santo diventa l’occasione della festa e della celebrazione e un punto di riferimento nei momenti di crisi. Per questo si fanno i voti collettivi e le processioni comunitarie per impetrare, per esempio, l’acqua per le coltivazioni oppure l’allontanamento della peste.

Chiesa e fortificazioni fanno riferimento alle due anime che hanno costituito la storia del Medioevo locale. Esse diventano i simboli di questa rete di sostegno che garantisce la convivenza civile e disciplina i rapporti sociali definendo diritti e doveri dei cittadini e delle famiglie, prima ancora della loro incolumità fisica. Vita religiosa e vita civile si intrecciano: per motivi religiosi si facevano anche le guerre (basti pensare alla famosa Guerra decennale tra Milano e Como dal 1118 al 1127 che scoppia anche per dissensi religiosi), ma anche per motivi politici si erigono le chiese o si consacrano a un certo santo (la prova è la chiesa a S. Tommaso Becket dedicata proprio a lui perché si era opposto al re Enrico II, nemico del papa).

Sono in molti oggi a riconoscere che alla base del maggior sviluppo delle regioni del Centro Nord ci sia la maggior dotazione di risorse di capitale sociale che comincia a costituirsi in questi secoli. Per capitale sociale si intende la fiducia, le norme che regolano la convivenza, le reti di associazionismo che facilitano la cooperazione spontanea. Questo capitale sociale è una risorsa che innesca il processo di sviluppo economico di una comunità, che forte della sua identità, si apre allo scambio con le comunità vicine e lontane.

È interessante ripercorrere lo statuto del 300/400 per evidenziare questo aspetto, cioè la fiducia nelle persone e nelle istituzioni e la collaborazione tra tutti i cittadini come base della comunità.

Gli aspetti economici e culturali
Sfogliando lo Statuto del comune di Dervio e di Corenno del 1389 e gli atti notarili di questo periodo, ci si rende conto del discreto sviluppo economico e culturale di queste piccole comunità: non si trattava più un’economia di sussistenza, ma una moderna economia fondata sull’agricoltura, sull’allevamento, sullo sfruttamento del bosco, sulla pesca, sulla caccia e sull’artigianato e sul commercio.

Un aspetto importante della vita della comunità era l’appalto dei beni comunitari a beneficio del Comune: il lago per la pesca, il bosco per il legname, le tense per la caccia agli uccelli, il trasporto pubblico sul lago e alcune cariche e servizi pubblici. È sufficiente scorrere l’elenco delle merci che erano imbarcate nei cinque moli tra Dervio e Corenno per comprendere la solidità di questa economia. Si commerciavano bestie di ogni tipo (cavalli, mucche, volpi, pecore, pollame, sparvieri), cereali, (frumento, segale, miglio, panico), legumi, castagne, noci, nocciole, lino, canapa e lana. Per i metalli si parla di stagno, di ferro, di rame; di carbone ottenuto con la legna, di mattoni, legnami, piode.
Oltre a queste materie prime vi erano i manufatti dell’artigianato: stoffe di lino, di fustagno, di lana, vino, olio, miele, prodotti lattei e pelli.

Roberto Pozzi

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Le Castagne come “Pane dei Poveri”

domenica, Gennaio 1, 2012 @ 01:01 PM
aggiunto da admin

cucina castagneIl castagno per secoli ha sfamato con i suoi frutti intere generazioni ed ha costituito la base alimentare delle popolazioni rurali che in esso trovavano rimedio a carestie e povertà.
Il ciclo reimpiegava tutte le risorse: le castagne buone erano nutrimento per l’uomo, quelle guaste per gli animali, le scorze si usavano l’anno successivo per alimentare il fuoco dell’essiccatoio, le foglie come lettiera per il bestiame nelle stalle;i ricci venivano messi nella zoca: un buco nel terreno con funzioni di torbiera dove i ricci marcendo sarebbero diventati concime per gli alberi. Il suo legname serviva a riscaldare i casolari, forniva tannino per la conciatura delle pelli e materia prima per costruzioni e attrezzi di uso quotidiano.
Le castagne per il loro basso costo, l’alta reperibilità e l’elevato potere nutritivo venivano utilizzate come alternativa ai cereali, sostituivano spesso il pane di segale, da cui il nome di “pane dei poveri” ed è proprio in questa lotta per la sopravvivenza che i poveri hanno imparato ad utilizzare e cucinare le castagne nei più svariati modi.

I modi di cottura erano molto semplici: le castagne venivano lessate in pentola con acqua o arrostite con una padella bucata. Chi ne aveva la possibilità le cuoceva anche al forno.
Quando le castagne erano pronte, la padella veniva posta sull’angolo del focolare e tutti i familiari si disponevano attorno a sbucciare e preparare le belle mondine gustose e saporite.Tra i modi antichi di cucinare le castagne ricordiamo:
Castègn e làcc: castagne essiccate, sbucciate e lessate in acqua salata con l’aggiunta di qualche seme di finocchio. A cottura ultimata si mettono in una tazza con latte e zucchero.
Castègn e patati: in una pentola con acqua calda salata si cuociono castagne essiccate e pezzi di patate.
Buröll: sono le caldarroste abbrustolite fresche sulla fiamma del fuoco. Prima di toglierle dalla padella si usa farle “masarà” (inumidirsi) coperte da foglie di verza.
Peladèi: le castagne fresche e più grosse vengono sbucciate lasciando però la pellicina e si fanno lessare in acqua salata con semi di finocchio.

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Debbio… Una Madonna da riscoprire

martedì, Novembre 1, 2011 @ 10:11 PM
aggiunto da Mandello

a cura di Simonetta Carizzoni

Una passeggiata a Debbio

Negli ultimi decenni un po’ dimenticato, al confine tra due Comuni, questo santuario finalmente è per i visitatori una piacevole scoperta e un’occasione per una salutare passeggiata. Si puo infatti percorrere in pochi minuti il tratto Debbio – S. Giorgio e viceversa o arrivare da Abbadia seguendo il “Sentiero del viandante”.
Dal 2006, anno in cui un intero mese fu dedicato a Debbio, con mostre ed eventi, grazie    alla sensibilità dell’ Amministrazione Comunale    di Mandello, l’8 Settembre di ogni anno (festa della Madonna di Debbio) si può raggiungere questo sacro luogo anche in barca, rivivendo un magico momento, ammirando la chiesa dal lago e assistendo alle varie iniziative organizzate in collaborazione con la Parrocchia di San Lorenzo.


Una Madonna del latte

La devozione Mariana nel nostro territorio è testimoniata da vari oratori, chiese, santuari e cappelle votive; una recente ricerca ci illumina sulla diffusione e venerazione per le Madonne del Latte nella nostra Provincia, tra cui anche quella di Debbio.
Voglio qui ricordare altre Virgo Lactans: una era conservata in San Martino di Abbadia, un’altra, dolcissima e di buona fattura, era situata in una corte privata di Linzanico; lungo la vecchia strada che dai Saioli conduce a Lierna, sul muro di un casello se ne trova ancora una, cosi come nella chiesa di Bonzeno sopra Bellano.

Posizione privilegiata

II santuario di Debbio aveva un tempo un’importanza particolare come punto di passaggio quasi obbligato; su un colle, tra campi coltivati, in vista di Mandello, si trovava all’incrocio delle vie di comunicazione tra le sponde del lago e le strade che portavano ai borghi e verso i monti; per raggiungere Mandello bisognava salire, lungo la via Ducale, fino a S. Giorgio e ridiscendere, superando il Sasso omonimo o prendere a Debbio la barca.
In effetti ci sembra oggi strano perchè esiste la carrozzabile a lago, realizzata dagli Austriaci nella prima meta dell’800 e la ferrovia Lecco-Colico (1892). Un’unica rampa univa la chiesa all’approdo a lago prima del 1820-30, mentre ora sono tre.
L’ importanza della Madonna di Debbio è testimoniata anche dalle cartoline che la rappresentano e che venivano inviate da Mandello oltre che dai disegni di artisti locali.

Storia

La costruzione e antica, ma non databile con precisione. Inizialmente dedicata a S. Stefano (come citata gia nell’ 883), è ricordata alla fine del XIII sec. da Goffredo da Bussero nel LIBER NOTITIAE SANCTORUM MEDIOLANI tra le venti chiese di Mandello.
Nel 1434 viene commissionato dai conti Stropeni un affresco della Madonna del latte. Del 1619 è la piccola campana, con la scritta “Sancta Maria ora pro nobis”, del XVII sec. molti ex voto, ora perduti, una pala con la lapidazione di S. Stefano, una tela di Madonna con Bambino tra Santi e offerenti. Molti lavori vengono realizzati nella seconda metà del ‘700: 1755 si sposta l’affresco, nel 1760 il Santuario viene dedicato a Santa Maria Nascente, nel 1781 viene dipinta la volta della chiesa. Nel XIX sec. il santuario assume maggiore importanza quando Pio VII consacra l’altare privilegiato di Debbio.

 

Arte

Le forme attuali dell’edificio    risalgono alla seconda metà del 1700 e ripropongono la tipologia degli oratori della zona. La facciata a capanna ha una distribuzione simmetrica delle aperture, con due finestrelle ai lati del portone centrale, incorniciate in granito, una più grande superiore, decorata con cornice in stile Barocchetto come il portale sottostante. L’interno ad una navata, con volta a botte, presbiterio rettangolare, presenta la parete dell’altare dipinta a volute, conchiglie e fiori, un finto catino con le stelle.
Nell’insieme si ha l’illusione di uno spazio concavo molto ricco; ai lati dell’altare, ornato da un prezioso paliotto in seta, due porte danno accesso alla Sagrestia.
Alle pareti laterali, intonacate di rosa marmorizzato, undici ovali richiamano quasi tutti qualità e virtu di Maria.


L’affresco della Vergine (1434)

Dipinto da autore sconosciuto, l’affresco rappresenta una Madonna che allatta seduta in trono, ricoperto da un drappo rosso; tiene il Bambino Gesù con la destra, mentre nell’altra mano ha un rametto di rose.
Realizzato inizialmente sulla parete interna verso Abbadia, nel 1755 è staccato e spostato nella nicchia sopra l’altare.
Dal 1760 è protetto da un vetro con cornice dorata; un recente restauro ci ha restituito la Madonna del latte com’era (il seno nel corso del 1800 era stato coperto).

 

La religiositià popolare e gli ex-voto

La devozione popolare, iniziata    nel 1434, continua nei secoli tanto che il luogo conosciuto come “Madonna di Debbio” e molte sono le elemosine,    le offerte, i lasciti.
L’afflusso dei fedeli aumenta dopo che il 26-9¬1817 papa Pio VII concede l’Indulgenza Plenaria perpetua.
Anche una recente ricerca ha dimostrato l’attaccamento dei mandellesi per questo santuario, frequentato assiduamente fino al dopoguerra e agli anni ’60, e confermato come le donne in particolare vi si recassero per pregare questa Madonna del latte, chiederle la grazia di un figlio, la protezione durante la gravidanza, il parto e l’allattamento, che nei secoli passati voleva dire la sopravvivenza del neonato. Era abitudine portare i bambini a Debbio (piccoli, ma anche ragazzi); la panchina esterna permetteva anche a loro, quando la chiesa era chiusa, di vedere l’interno e di rivolgere una preghiera alla Vergine; si lasciavano fiori e ceri sulla finestra aperta e tante famiglie si recavano per la festa sia a piedi che in barca. Le processioni passavano per Debbio: a S. Marco, il 25 aprile, si facevano benedire le uova del baco da seta, ad aprile-maggio vi passavano le rogazioni, processioni mattutine per la benedizione dei campi. Molti matrimoni sono stati celebrati nel Santuario e si racconta di fatti miracolosi.
Una particolare attenzione meritano gli ex voto del ‘700 e ‘800, realizzati su supporti di materiale diverso, prevalentemente ligneo, una produzione pittorica minore ricca di fascino (le relative copie sono ora appese nella chiesa).

La festa della Madonna di Debbio

Preceduta da una novena, l’8 settembre era una ricorrenza molto attesa e speciale, con la S. Messa, i Vespri e i canestri; ci si fermava tutto il giomo per una scampagnata in compagnia.

Tutte le opere sono da qualche anno conservate in S. Lorenzo a Mandello: la tela e la pala sono visibili nella cappella di S. Marta, gli ex voto sono nel corridoio tra questa e la Sagrestia, dove si trova anche l’Indulgenza plenaria, incorniciata sopra la porta; la preziosa corona della Madonna è conservata invece nel Museo della parrocchiale. Sul leggio dell’altare centrale si può notare un altorilievo raffigurante l’Eterno Padre, che ha subito diversi spostamenti (sui quali non concordi sono i vari studiosi), ma era conservato a Debbio: alcuni testimoni raccontano che un tempo era inserito nel muro di sinistra dell’ultima rampa di scale, da qui rimosso e murato nella parete esterna verso Abbadia in occasione dell’ampliamento del sagrato della chiesa verso sinistra.

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