Archivio categoria ‘Storia’

La Castagna: un alimento importante per le generazioni passate

sabato, Marzo 17, 2012 @ 01:03 PM
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Le castagne sono il tipico prodotto autunnale: cadono spontaneamente dall’albero da settembre a dicembre.
I prodotti derivati, come la farina di castagne e le castagne secche, possono essere conservati a lungo e si trovano tutto l’anno.
Per centinaia di anni le castagne hanno rappresentato la principale fonte alimentare delle popolazioni del Lario  durante l’autunno e l’inverno, tanto da meritarsi l’appellativo di “pane dei poveri”.
E’ infatti l’elemento base non solo per moltissime ricette tipiche del luogo, ma è stato utilizzato in passato anche come ingrediente di medicamenti e derivati.

Vista l’importanza di questo alimento, presentiamo una ricerca approfondita basata su un lavoro di Marina De Blasiis ed originariamente pubblicata sul sito della Proloco di Lierna.

Il Castagno
Proprietà e Uso delle Castagne
La Coltivazione e la Raccolta delle Castagne
Lavorazione delle Castagne
La Castagna come “Pane dei Poveri”
Leggende sulle Castagne
Ricette con le Castagne

Corenno Plinio: La chiesa Parrocchiale

sabato, Gennaio 28, 2012 @ 03:01 PM
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Chiesa di Corenno Plinio

La chiesa parrocchiale, dedicata a san Tommaso di Canterbury, sorge lungo una via di comunicazione importante che collega Lecco con Colico attraverso la Valsassina e da Colico portava sia in Valtellina sia nei Grigioni attraverso i passi sopra Chiavenna. Si trova vicino al castello-fortificazione e quindi era probabilmente in origine una chiesa castellana come quelle di sant’Antonio abate vicino al castello di Vezio e san Leonardo vicino al castello di Orezia a Dervio, per questo motivo comunicava con la fortezza nella parte settentrionale.
Accanto al castello si era stabilita la famiglia dei conti Andreani a cui era stato infeudato il territorio, che divennero i mecenati di Corenno come succedeva nei grossi comuni di quell’epoca. Essi esercitarono un diritto di juspatronato sulla chiesa e quindi intervennero sull’evoluzione edificatoria e artistica. Il loro stemma è riprodotto a rilievo sul fronte marmoreo delle loro tombe e si ritrova ripreso su alcuni oggetti liturgici. In modo particolare è presente sopra l’affresco cinquecentesco della “Madonna in trono” sul lato meridionale. Il committente di questo affresco eseguito nell’anno 1538 è appunto Sigismondo Andreani, definito “fisicus”. Si ricorda anche un Giovanni degli Andreani “fisicus” che nel 1487 si era trasferito a Bellano.La chiesa fu edificata alla fine del XII secolo, negli anni immediatamente successivi alla morte e alla canonizzazione di san Tommaso. Il santo venne assassinato nel 1170 nella cattedrale di Canterbury dai sicari di Enrico II d’Inghilterra perché fedele al papato si opponeva alle sue ingerenze nella gestione della Chiesa locale.
corenno - stemma famiglia AndreaniIl Liber Notitiae Sanctorum Mediolani, verso il 1290 menziona una chiesa nella pieve di Dervio dedicata a San Tommaso martire morto da pochi anni. (In plebe derui, loco cortono, ecclesia sancti thome martyris). In origine la piccola chiesa legata alla famiglia del feudatario come cappella privata era anche destinata a funzioni funebri o a pratiche di devozione popolare. Le messe e i battesimi della comunità erano invece celebrati nella chiesa prepositurale di Dervio. A partire dal 1327 divenne una chiesa effettiva con un proprio cappellano, sempre legato alla famiglia Andreani. La chiesa fu riconsacrata il 3 novembre 1355.
Nel 1566 l’arcivescovo di Milano, Carlo Borromeo, nel suo progetto di riforma della chiesa ambrosiana, la trasformò in parrocchia autonoma slegandola da quella di Dervio e nominò un curato residente.

La chiesa è correttamente orientata verso est, il luogo dove sorge il sole; guadando l’altare, si ha alla sinistra il nord, ritenuto dai latini il luogo degli infedeli, verso dove si annunciava il Vangelo durante la messa prima della riforma liturgica del Vaticano II. In uno sguardo d’insieme non appare la sua antichità perché in essa si sono effettuati interventi di ristrutturazione molto rilevanti. Di origine romanica, venne ristrutturata in epoca gotica e gradualmente perse le sue caratteristiche essenziali romaniche negli elementi importanti: la facciata, la controfacciata, il presbiterio, l’abside e il campanile.

La facciata della chiesa a capanna è stata più volte manomessa, attualmente presenta un portale costruito nel 1698. Il corpo principale della navata ha conservato l’impianto originario, ma gli affreschi che si possono ammirare oggi furono nascosti per secoli a partire dal Cinquecento. Infatti, seguendo indicazioni di san Carlo Borromeo, le pareti furono più volte imbiancate come mezzo di disinfezione in periodi di pestilenza. Va rilevato che una modesta traccia dell’originaria immorsatura absidale si è conservata, presso la congiunzione con la parete laterale settentrionale, come indica anche chiaramente l’affresco dell’Epifania, che tende a curvarsi in una significativa inclinazione, prima di scomparire dietro la lesena che regge la ricaduta dell’attuale arco trionfale. È probabile che l’ampio presbiterio tardo barocco racchiuda, all’interno della sua pianta, il disegno semicircolare di un’abside romana

Tra Settecento e Ottocento la chiesa subì altri interventi: nel 1703 si ricavò una cappella laterale dedicata a san Giuseppe e un’altra dedicata alla Madonna. Quest’ultima è di stile barocco, con altare a colonne tortili in marmo nero di Varenna. Nel 1711 si eresse l’attuale campanile e si ampliò l’abside. Tra la fine Settecento e il primo Ottocento si realizzò l’altare.

Probabilmente all’origine era stata ricavata anche una cripta per la conservazione delle reliquie. Della primitiva costruzione romanica ora si possono ammirare soltanto due belle monofore nella parete verso sud; altre serie di monofore sono scomparse già in epoca gotica.

Nel 1966 un’importante opera di restauro ha portato alla luce parte degli affreschi votivi dipinti sulle pareti tra il Trecento e il Cinquecento.

Roberto Pozzi

APPROFONDIMENTI
Gli Affreschi
Le Arche Andreani

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La storia di Corenno e del suo castello

sabato, Gennaio 28, 2012 @ 03:01 PM
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Secondo gli Statuti medievali di Dervio e Corenno del 1389 le fortificazioni di Dervio che inglobavano la torre di Orezia, giungevano anche alla vicina Corenno dove sorgeva il castello-recinto con fossato, abitazioni ed una piazza dove partiva la strada per Vestreno, quindi per la Valvarrone. Della muratura che univa il castello di Corenno a quello di Dervio di Orezia non esiste più traccia, anche se probabilmente è da identificarsi con i tratti di muratura a protezione della stradina che correva a circa quota 300 da Corenno alla località Castello per poi inerpicarsi verso la Valvarrone. Purtroppo questa stupenda strada panoramica è stata travolta dagli interventi per la formazione della Statale 36 o superstrada per lo Spluga. A Corenno, come si è detto, risiedeva la famiglia Andreani, proprietaria del Castello che aveva avuto fino dal 1271 il feudo di Corenno dall’Arcivescovo di Milano Ottone Visconti. Il cognome indicava la discendenza da un Andrea, tanto che in alcuni documenti dell’inizio del Trecento viene riportato spesso come genitivo Andree. Questa famiglia non era originaria di Dervio, ma forse proveniente dai Grigioni. Alcuni storici posero l’inizio della presenza a Dervio con la conferma del feudo di Dervio, Corenno e parte del monte di Varenna redatto il 30 maggio 1271 da parte dell’Arcivescovo Ottone Visconti a favore di Jacobo Andriani detto Foxatus. Nell’atto di fondazione della Cappellania della Madonna del Rosario, però, redatto il 12 settembre 1327 si trova che un Ruggero Andriani aveva acquistato dei terreni a Corenno ed era avo di Baldassarre, figlio di Jacobo Andriani. La loro storia fu per secoli legata a Corenno, soprattutto attraverso il castello e la chiesa di san Tommaso di Canterbury e le Arche Andriani.

Nel 1039, secondo l’Arrigoni[1] Dervio, Corenno e Dorio sono alla dipendenza di Bellano. “Sulla fine della primavera la Repubblica delle Tre Pievi – Dongo Gravedona e Sorico -, posta in acqua le navi ben fornite di armi e armati, assieme ai Valtellinesi, prendono di sorpresa il paese di Dorio, e poi la flottiglia si spinge a Corenno, che trovato indifeso, occupano e saccheggiano, meno un forte sovrastante dov’eransi ritirati gli abitanti colle migliori masserizie. Il castello si arrese dopo tre giorni per mancanza di vitto e dell’aiuto dei bellanesi.” I pievesi e i Valtellinesi, per vendicarsi di un attacco subito da parte di alcuni paesi della riviera di Lecco legati al potentissimo arcivescovo di Milano, Ariberto da Intimiano, sconfissero gli abitanti di Corenno e Dervio ed entrarono in possesso del castello e del paese di Dervio, che si era arreso. Così gli abitanti, Dervio, Corenno e Dorio, dopo aver sostenuto quattro mesi di assedio e aver respinti replicati assalti, colla condizione di aver salva la vita e le masserizie cessarono di appartenere a Bellano e per alcuni anni fecero parte della repubblica pievese per cadere poi sotto il dominio dei milanesi

Nel Duecento e nel Trecento: con l’indebolimento del potere vescovile e la progressiva indipendenza dei Comuni, vi fu un periodo di grande confusione. Per la sua posizione strategica, al confine tra gli opposti interessi di Guelfi e Ghibellini, la sponda orientale del Lario fu teatro di scontri tra famiglie rivali dei Torriani e dei Visconti, che ambivano al dominio di Milano.

Secondo Antonio Maria Stampa che scrisse nel 1715 e che consulta altri storici come il Corio, Il Giovio, il Moreggia e il Ballerini tra gli altri, nel suo “Ristretto ovvero piccola cronaca degli annali gravedonesi”, ed. S. Monti, “il Prencipe Barnabò dapprima ordinò ai Comaschi di invadere Gravedona, ma poi fu inviata una missione per mitigare l’ira di detto principe, “principiarono la fabbrica del Castello di Rezzonico e quello di Corenno e furono terminati nel 1357, l’uno per trattenere li comaschi, acciocché non si inoltrassero con lasciarsi un castello alle spalle, e l’altro per frenare ed opponersi a quelli di Bergamo e Valsasina, che per quella parte dovevasi inoltrarsi, come altresì fortificarono Varenna e Bellano.”

Nell’anno 1364, tramontò definitivamente il potere temporale dell’Arcivescovo di Milano, anche Corenno venne ceduto ai Visconti il cui potere si stava affermando in modo stabile sul territorio. In quel periodo la comunità di Corenno era unita a quella di Dervio come è attestato negli Statuti comunali del 1389 che menzionano il castello e il suo fossato.

Nel 1402 morì Gian Galeazzo Visconti, massimo esponente della famiglia, che aveva sposato una figlia del re di Francia e ottenuto il titolo di duca di Milano. Con la sua scomparsa, si inaugurò un periodo di grande incertezza politica nel ducato. Alcuni paesi della riviera, come Dervio, passarono sotto il dominio dei Rusconi di Como. Corenno invece venne infeudata ai Malacrida, assieme a tutto il territorio settentrionale del Lario. Da questa data si staccò da Dervio e rimase comune indipendente per ben cinque secoli. In seguito, per un trentennio i Veneziani cercarono di conquistare le terre di Milano, con una fortuna di breve durata. Riuscirono soltanto ad occupare la Valsassina e a giungere fino al lago per mettere navi in acqua e fare di Lecco, secondo il loro sogno “una venetia piccinina”.

Nell’anno1450 Corenno giurò fedeltà a Francesco Sforza, nuovo Duca di Milano. Nel 1481 la sponda del Lario da Corenno a Mandello venne ceduta in feudo a Pietro dal Verme, in seguito al suo matrimonio con la tredicenne Chiara Sforza. Cinque anni dopo, Chiara, senza figli, avvelenò il marito, entrò in possesso delle terre e si risposò. Dal suo secondo matrimonio nacque un figlio che, oberato dai debiti, vendette Corenno e tutti i suoi possedimenti a Francesco Sfrondati, membro del Senato di Milano. (M. Casanova)

Tra gli anni 1527 e 1532, mentre ormai le Signorie crollavano sotto l’urto dei grandi regni che si erano formati Oltralpe, un audace personaggio, divenuto leggendario spadroneggiò sul Lario. Era Gian Giacomo Medici, detto ironicamente il Meneghino (piccolo Medici). Questi attaccava le terre fedeli a Milano, terrorizzando e depredando i paesi del lago che si rifiutavano di rifornire le sue truppe. Per quanto sorprendente, il Meneghino era zio di S. Carlo Borromeo e fratello del papa Pio IV. Quest’ultimo per rimediare alle sue scellerataggini concesse importanti indennizzi ai Comuni saccheggiati dal fratello.[2]

Nel 17 febbraio 1532 vi fu un grande scontro fra la flotta medicea e quella ducale. Pur senza aver subito gravi perdite, i medicei ebbero la peggio. Il 18 febbraio i medicei tentarono di sbarcare a Corenno, ma la popolazione li respinse. La flotta medicea si spinse allora verso Bellano e Colico che furono saccheggiate, dove riuscirono a razziare solo miglio e castagne. Dopo la presenza del Meneghino si fece sentire sul territori più forte la dominazione Spagnola preoccupata della difesa dai Grigione e intenzionato ad unire il Milanesado con i suoi possedimenti nelle Fiandre senza passare dalla nemica Francia.

Il comandante Pedro Henríquez Acevedo Conte de Fuentes, giunse a Milano nel 1600 con i poteri di dirigere la politica spagnola in Italia. Era un governatore di alto vigore, fortunato combattente e fidato consigliere del re. Nelle Fiandre dal 1595 aveva avviato un programma di opere di fortificazione, che rimase la sua principale base per la gestione della politica. Gli obiettivi della sua politica nel Milanesado erano soprattutto la sicurezza del paese con la costruzione di grandi opere di fortificazioni, utilizzando perfino i campanili e il presidio dei confini con la costruzione di piazzeforti.

A Colico, sul monte Monteggiolo fece costruire una grande fortezza per difendersi sia dalla Repubblica delle tre Leghe sia dai Veneziani che passavano di lì per commerciare con il nord. Prima aveva fortificato le città (Novara, Mantova, Pavia e Cremona) e aveva creato quattro nuove piazzeforti (a Soncino, a Mozzanica, a Casalmaggiore e a Colico). Per realizzare un efficiente sistema difensivo dapprima creò delle imprese militari che dovevano provvedere al funzionamento delle caserme. E in questo suo progetto si scontrò con la resistenza delle comunità costrette alla tassa di alloggiamento delle truppe. E in secondo luogo dovette provvedere alla sistemazione dei percorsi tra le città e i presidi. Scelse il Monteggiolo appartenente al contado di Como perché era raggiungibile via lago con imbarcazioni.

Nel 1606 Acevedo propose di far costruire una strada da Milano a Colico e incaricò Sitoni e Vacallo di “visitar los caminos que de Como y de Leco van al dicho fuerte”. Dapprima pensò a una strada che da Como arrivasse a Colico lungo la sponda occidentale, ma le comunità si opposero e proposero una strada sull’altra sponda. A Tolomeo Rinaldi, ingegnere camerale e Gaspare Baldovini ingegnere di fortezze si chiedeva di trovare la strada migliore, la più breve e la meno dispendiosa. Essi calcolarono per la sistemazione della strada della sponda occidentale £. 210.000 e quantificarono per la strada orientale una spesa di £. 82.000. Rinaldi controllò che per il tratto da Colico a Dervio si spendeva poco per il passo di un cavallo da soma. Per il difficile percorso da Dervio a Bellano si poteva usare la via della Muggiasca, con un ponte al Portone, e uscire a Cortenova in Valsassina, da cui si poteva andare agevolmente in piano tenendo a sinistra il Pioverna fino ai Forni di Introbio, dove occorreva rompere il Sasso del Bajedo e poi seguire la strada fino a scendere a Laorca e finalmente a Lecco. I Valsassinesi si opposero tenacemente a questo progetto. Il Giussani afferma che fu realizzato, mentre l’Arrigoni nega la sua esistenza. Però Pedro Hernriquez Acevedo, nel 1610 mandò truppe al Forte per la Valsassina perché era il tragitto più breve e le comunità avevano aggiustato la strada. In quello stesso periodo (1592 – 93) i veneziani avevano costruito la strada Priula  nella Val Brembana che congiungeva Bergamo con lo sbocco nella Valtellina poco distante da Morbegno.

Nel 1607 probabilmente si effettuò un adeguamento di tutta la strada. Questo un ulteriore indizio di adeguamento del percorso scelto pare testimoniato dal rifacimento del ponte di San Quirico di Dervio, sul torrente Varrone, eseguito nel 1607. In tal modo restava aperta una pista per Fuentes, più breve del percorso da Como poiché lunga 25 miglia da Lecco al Forte e 30 miglia da Lecco verso Milano. L’onere della manutenzione e del miglioramento ricadeva però sui comuni, in seguito alle ingiunzioni dello Stato.

Già nel 1610 vi passarono 3000 soldati che ne approfittarono per alcune scorrerie risalendo da Introbio fino alla valle del Bitto, e allarmando i Grigioni che rafforzarono i presidi di Cosio e Mantello. passarono anche compagnie scaglionate, che sostarono per esempio a Margno e a Crandola.

Nel 1620 più di 250 cavalieri vi transitarono diretti a Fuentes per la guerra di Valtellina.

Nel 1629 le truppe dei Lanzi dirette alla conquista di Mantova seguirono lo stesso percorso a ritroso. Gettarono un ponte di barche sull’Adda vicino a Dubino e, dopo aver saccheggiato Colico, passarono per il sentiero dell’oratorio di San Rocco e per la strada di San Nicolò, sopra la Cà, quindi da Dorio proseguirono a Corenno e salendo da Bellano, entrarono per la Valsassina. In un sol giorno arrivarono a Cortenova. Una volta a Lecco parecchi si dispersero e si dedicarono al saccheggio verso la chiusa a sud e verso l’Abbadia a Nord. Infine superarono il ponte di Lecco sull’Adda intorno al 12 ottobre.

Alla fine di agosto 1629 il governatore Spinola Doria aveva invitato il conte Serbelloni a visitare la strada: “di Colico e di Valsasena, acciò la cavalleria alemanna, quando verrà l’occasione possa passare facilmente per terra a Mandello e di là a Lecco, ove sta preparato un ponte”. Ma il Collalto non stette ad attendere l’ordine dello Spinola e il 12 settembre le truppe del Mèrode erano già a Lecco, seguite poi da altre compagnie, che sommavano a 25.000 soldati e con le famiglie 40.000. A Milano si seppe di questo passaggio il 10 settembre da un cavaliere corso da Forte Fuentes, dove molti soldati fuggirono e si ripararono a Lecco, unendosi alla sopraggiunta compagnia del Rainoni per il controllo del borgo.

Nell’autunno del 1630, il comune di Dervio ottenne che l’alloggio di un corpo alemanno, risiedesse piuttosto a Bellano per evitare. “un’immensa rovina, il totale sterminio della povera gente, già afflitta da inenarrabili miserie”.

Nel 1631 analogamente avvenne con il Rohan: battuti gli spagnoli di Fuentes a S. Martino di Morbegno, ci si attendeva che scendessero lungo la solita pista, cosi che i valsassinesi corsero alla difesa di Portone; invece in Rohan si acquartierò in Mantello e sul lago di Mezzola. Nel febbraio le truppe francesi si divisero in due tronconi: uno assalì la Torretta di Curcio e liberò la strada del lago; l’altro risalì la valle del Bitto, valicò il Legnone e scese a Premana, unendosi a Introzzo con i cavalieri saliti da Dervio, i 6000 seguirono ancora la strada di Bellano, batterono il presidio del Portone e, devastando la Valsassina, proseguirono fino al Ponte di Lecco, dove furono fermati dal mastro di Campo Ippolito Crivelli, di stanza a Lecco, e dal capitano Paolo Sormani.

In quel periodo a Corenno le mura del castello erano presidiate da una compagnia spagnola guidata dal capitano Pedro de la Ringa, che con sbarramenti riuscì ad evitare i saccheggi nel borgo. Questi fece abbattere case e stalle poste non lungi dal castello perché non servissero al nemico come luogo per posizionare le batteria e distruggere il paese.

Nel 1633, infatti fu ordinato al comune di Dervio di accomodare il suo tratto di strada per la cavalleria del Balosso diretta in Alsazia sotto pena che “verrà fatto sostare e mantenere in comune il detto corpo oltre al pagamento dei danni”. Nell’anno 1633, la strada pur disagevole aveva però anche valenza economica, perché vi passarono 70 cavalli carichi di armature dirette da Milano al Tirolo. Secondo antica tradizione serviva all’approvvigionamento delle ferriere di Lecco con i materiali ferrosi scavati o lavorati nella valle.

Non venne trascurata anche l’alternativa della navigazione, se attuata con vento favorevole, sia per i trasporti, sia per esigenze militari, come avvenne fra Lecco e Dervio ancora nel 1704 contro il Davia per 700 dragoni e corazzieri del Toralbe, inviati dal principe di Vaudemont, che proseguirono per la strada costiera.

I miglioramenti, che anche parzialmente erano stati condotti sull’intero tragitto, vennero così sfruttati non solo dagli Spagnoli ma anche dai loro nemici. I valsassinesi e i lecchesi in questi anni riportarono enormi devastazioni con gravi ricadute nell’economia specialmente quella mineraria e metallurgica, a discapito di tutto lo Stato.

Nel 1646 ai paesi della Riviera furono richiesti 17 soldati guastatori per il riatto delle strade.

Nel 1704 sempre per Lecco e la Valsassina passarono i 280 cavalieri imperiali del marchese Davia dirette all’assedio di Fuentes, pur poi fallito per l’arrivo da Lecco di 50 dragoni a piedi;

Nel 1706 contro il forte Fuentes, ultimo ad arrendersi nello Stato, vi transitarono le truppe del barone Kraustenein con 300 fanti dei cavalieri Carlini, Zozel e Frinstein e a nove giorni dopo i due cannoni con cui abbattere Fuentes.

Quando nel Settecento la fortificazione di Corenno perse ogni funzione difensiva, secondo il Catasto Teresiano il terreno venne destinato a vigna. La muratura ad ovest fu poi abbattuta per consentire la vista sul lago e per una maggior esposizione al per le viti.

Entro le mura del castello, il 27 e 28 giugno 1859 alloggiò il Corpo delle Guide a Cavallo della Brigata Garibaldi che accompagnava il loro generale che da Lecco si stava recando in Valtellina: in quell’occasione il comune dovette sborsare 130 razioni di vino per i soldati, 77 di fieno vecchio e 3 somme avena per i loro cavalli.

Gli scrittori parlano del Castello

Paolo Giovio che nel Cinquecento in giro nelle terre che Francesco Sfondrati aveva ricevute in Feudo da Carlo V, per descrivergliele poi in Larius, scopriva che “adiacet Corenum cum arce”, cioè che il borgo era addossato a una roccia e aveva una rocca.

Nel Seicento, Sigismondo Boldoni il quale, pure con il suo Larius, ci informa che sul punto più alto c’è una rocca per la più parte rovinata; ma, aggiunge, giocondissima per le dolci aure che vi spirano.

Nel Settecento è la volta di Anton Gioseffo Della Torre di Rezzonico a narrare, ancor egli con Larius, che la rocca di Corenno fu “munitissima, et plura bellorum tulit incomoda” e che a bruciar Corenno fu il lecchese Francesco Morone, comandante delle truppe cesaree.

Ai tempi di Anton Gioseffo la rocca di Corenno era già “semidiruta”.

Così nell’Ottocento Ignazio Cantù in Quattro giorni in Milano può rilevare: “Serba Corenno le reliquie del castello appartenente al conte Andreani-Sormani”.

Roberto Pozzi

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[1] G. Arrigoni, Notizie storiche della Valsassina e delle terre limitrofe, milano 1840

[2] M. Casanova e G. Pensa, Corenno Plinio, Bellavite.

Castello di Corenno: Indagine Archeologica

giovedì, Gennaio 26, 2012 @ 12:01 PM
aggiunto da admin

Nel 2005 si realizzò un’indagine archeologica nell’area della fortificazione medioevale. Dallo scavo di circa 200 mq. all’interno della cintura muraria a ridosso del perimetrale est è emersa una stratificazione di sette strati rappresentativi di un arco di tempo che va dall’età del bronzo a un secolo fa.

Nello strato I si è rinvenuta un’imponente struttura di pietre di un muro lungo complessivamente 17 m. e largo da 1 a 3,5 m. Gli archeologi lo definiscono un pietrame disposto a secco senza matrice con pietre di forma appiattita e spigolosa. Tra queste pietre hanno rinvenuto frammenti ceramici di età preistorica. La muratura in gran parte asportata poggia sullo strato naturale (terra e roccia) e cinge il terrazzo naturale addossandosi alle ghiaie sterili del fianco est e sud del dosso. Si tratta di un grande muro a secco che recintava la parte alta del promontorio. Si sono recuperati: materiali ceramici, frammenti di pietra ollare, resti ossei di animali. Si può quindi ipotizzare che si tratti dei resti di un castelliere preromano simile a quello di Ramponio in Val d’Intelvi.
Sappiamo infatti dallo storico Tito Livio che nel nel 189 a.C. Marco Claudio Marcello conquistò i territori attorno a Como, e ben 28 castellieri (castella) del territorio si sono consegnati ai Romani dopo la resa degli Insubri. Il console fu magnanime con i vinti e i Comensi vennero legati a Roma da un foedus, un vincolo federativo, nel rispetto delle autonomie locali. In cambio poté contare sulla loro assoluta e perenne fedeltà.

Dal I al II strato vi è uno iato fino all’età medioevale, segno possibile di un abbandono della fortezza in quella zona in relazione alla presenza romano e a un lungo periodo di pace sul territorio.

Al II strato, a parere degli archeologi, è riconducibile una parte di un muro in pietre legate da malta della lunghezza di m. 4,65. Questa struttura è visibile attualmente nella porzione inferiore dell’angolo sud est del castello. È possibile che questo muro fosse collegato con la torre più antica verso Nord. È anche probabile che per questa costruzione si sia usato il materiale proveniente dalla demolizione della struttura dell’epoca preistorica.

Poi c’è una fase di abbandono e nella fase VI vi è la costruzione dell’imponente castello recinto che va a inglobare la torre preesistente. Questo muro della fase VI poggia direttamente sulla fondazione della fase muraria di fase II. Nella fase VII si sono ritrovati resti di piccoli edifici agricoli della fase IV.

I reperti trovati nella zona I risalgono all’età del bronzo, circa del IX secolo avanti Cristo. Se si tiene in considerazione il materiale ceramico recuperato, si osserva che vi sono frammenti relativi alla fase finale dell’età del Bronzo. Quindi è lecito supporre che l’opera in muratura sia da riferire al perimetro di un castelliere che, con buona probabilità, occupava tutto il rilievo del castello di Corenno, si tratta quindi di un’imponente struttura in pietre a secco, visibile lungo tutto il lato Est dello scavo e lungo il lato corto sud. Si tratta di una massicciata costruita di pietre di media e grandi dimensioni che cinge il dosso naturale precedente all’edificazione del castello. La struttura parzialmente asportata poggia direttamente sullo strato naturale. Il castelliere è un piccolo insediamento o villaggio, fortificato protostorico (età del Bronzo e del Ferro) sorto in genere in posizione elevata facilmente difendibile, in cui una difesa naturale veniva sfruttata e rafforzata dall’opera dell’uomo. I castellieri possono essere muniti da una o più cinte murarie, costruite a secco, con la tecnica detta a sacco. All’interno del castelliere a volte è possibile individuare alcune strutture a terrazzamento che formano zone piane adatte alla costruzione delle abitazioni, della quali tuttavia non si sa molto.

(Il testo è ripreso da “Carta archeologica della Provincia di Lecco. Aggiornamento, anno 2009, pg 59 – 66)

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Proprietà e Uso delle Castagne

domenica, Gennaio 1, 2012 @ 11:01 PM
aggiunto da admin

Le castagne fresche hanno un elevato contenuto calorico (160 Kcal ogni 100 g di prodotto edibile); il saccarosio (6,7 g/100 g) è in quantità più elevata che in frumento, noci e patate ed è il principale zucchero mentre glucosio, fruttosio e maltosio sono presenti in quantità minime.
Per la ricchezza di glucidi i frutti hanno proprietà energetiche e sono perciò molto efficaci nelle astenie fisiche e intellettuali, per chi pratica sport o è soggetto a stress, mentre sono sconsigliati per i diabetici.

La farina sopperisce, nella preparazione di dolci e minestre, al fabbisogno di carboidrati anche nei soggetti che presentano intolleranza ai cereali.La corteccia e il legno del castagno, come la pelle dei frutti, contengono un’alta percentuale di tannino e le loro proprietà sono di tipo astringente. Per questo sono raccomandate le castagne secche nella cura delle diarree.Le foglie del castagno in infusione sono utilizzate per curare tossi e bronchiti.
L’acqua in cui sono state cotte delle castagne puo’ essere usata dopo lo shampoo per esaltare i riflessi dei capelli biondi.
Al forno o bollite, aiutano a combattere la stanchezza tipica d’inizio autunno perché sono ricche di magnesio e manganese.
Ricche di carboidrati, aminoacidi, sali, vitamine possono essere un gradevole sostituto del pane integrale. Si legano bene con verdure e ortaggi. E’ invece sconsigliata l’associazione con frutta acida, proteine animali, pane, zucchero e vino (anche se l’abbinamento è classico) perché può scatenare fenomeni fermentativi.
Non è così usuale e non a tutti può piacere il sapore della castagna cruda, ma addensa la saliva e forma anticorpi per proteggere dai malanni stagionali, tonifica i muscoli, i nervi e le vene.

Le foglie del castagno, raccolte in aprile e maggio, possono essere usate come rimedio per la tosse perché sono sedative e danno sollievo. Basta mettere in un litro di acqua bollente una manciata di foglie essiccate, filtrare bene e bere l’infuso.
Il fiore verde/giallo del castagno, che sboccia all’inizio dell’estate, secondo la fitoterapia di Bach aiuta a rinascere: si chiama Sweet Chestnut ed è efficace, se ci si crede, soprattutto per restituire la speranza nei momenti di sconforto.
Si può rinforzare lo scheletro e curare i reumatismi facendo bollire in due litri di acqua due manciate di foglie fresche di castagno e una decina di ricci, per venti minuti; aggiungere il tutto nell’acqua della vasca, facendo questo bagno almeno due volte alla settimana.
La polpa della castagna, cotta e setacciata, ha un effetto emolliente se applicata sulla pelle; la corteccia dell’albero invece, incisa, staccata e fatta seccare (in primavera o in autunno, i periodi di riposo della pianta) ha un effetto astringente e decongestionante.
Il macerato di gemme di castagno, ottenuto dai tessuti embrionali in crescita della pianta è un utile ricostituente per essere più energici e ricaricarsi nei periodi di stress.

Dal legno si ricava, per distillazione, alcool metilico (spirito di legno); il legno è inoltre impiegato nella produzione di pasta di cellulosa. Sovente l’interno dei tronchi di castagno si infradicia in un composto terroso e scuro, per effetto della carie; si forma così un prezioso terriccio per giardinieri (la cosiddetta terra di castagno), che viene usato nell’invaso di piante richiedenti terreni soffici e ricchi di humus.

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La coltivazione e la raccolta delle castagne

domenica, Gennaio 1, 2012 @ 11:01 PM
aggiunto da admin

raccolta castagneIl castagno era considerato fonte di alimento fondamentale per le popolazioni della montagna.
Veniva innestato e potato regolarmente, si ripulivano le piante del sottobosco che avrebbero potuto danneggiarlo, si estirpavano le erbacce, il terreno veniva pulito, concimato, e falciato con cura. Si utilizzavano semplici attrezzi per lavorare la selva, cioè i boschi di castagni: il rastrello, la falce, la scopa  realizzata con ramoscelli di betulla.
Se gli alberi si trovavano su terreni ripidi, per favorire la raccolta delle castagne  si preparavano, in fondo alla selva, delle siepi con fascine di legna e questo per permettere alle castagne cadute di raccogliersi e non rotolare troppo in basso, disperdendosi lungo i pendii o rotolando in proprietà altrui.

La raccolta delle castagne iniziava solitamente tra la fine di settembre e la prima settimana di ottobre e continuava fino a novembre. Al proprietario della selva spettava il raccolto e, tutta la sua famiglia era impegnata nel lavoro.
raccolta castagneLa raccolta avveniva principalmente a mano. I ricci che rimanevano chiusi si battevano con l’aiuto di rastrelli (sbatador, rastrello senza denti) e bastoni (batidor, mazzuolo con manopola di traverso). Le castagne si mettevano dapprima in ceste e panieri di vimini intrecciati (cavagnöi) e in qualche piccola gerla (berla) per poi essere messe in grosse balle di juta.
La raccolta veniva fatta esclusivamente nella propria selva; nessuno osava raccogliere le castagne nella proprietà altrui, perché, colti sul fatto, si veniva allontanati con rimproveri e minacce o, addirittura, a sassate.
Chi era in possesso di molte selve ne cedeva una parte a un’altra famiglia in cambio di un modesto compenso.
Solo dall’undici di novembre la raccolta era libera e le selve erano aperte a persone e bestiame. Le persone munite di cesti e sacchi raccoglievano castagne ovunque ne trovassero; era consentita la spigolatura delle castagne nelle selve e nei prati.
Nel periodo della maggior caduta i contadini si recavano due o più volte al giorno nella selva: facevano questo lavoro per 2 o 3 settimane. Le donne avevano un piccolo sacco che legavano  alla vita e quando era pieno lo svuotavano nella gerla.
Ai ragazzi spesso veniva assegnato il compito di raccogliere le castagne: essi si recavano nelle selve muniti di ceste al mattino, prima di andare a scuola, e al pomeriggio dopo le quattro, finite le ore di lezione.

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Lavorazione delle Castagne

domenica, Gennaio 1, 2012 @ 11:01 PM
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Essiccatura delle castagne
schema essicatoioDopo la raccolta, le castagne venivano portate all’essiccatoio (caselèt di castegn o secadùu) a seccare sui graticci (graa): era una piccola baita in muratura, formata da quattro muri in pietra, un tetto solitamente coperto da paglia, per esigenze di tiraggio, ma talvolta anche da lastre di pietra, con un alto locale diviso a metà in verticale da un pavimento formato da un graticcio (da qui il nome graa) sul quale venivano sistemate le castagne. La graa era formata da una serie di travi come quelle che sostengono i soffitti delle abitazioni normali, poste a un’altezza da terra che varia dai due metri e mezzo fino ai tre metri.
Sulle travi si posavano senza fissarli listelli di nocciolo (scudech) o rami di castagno (come nell’essiccatoio di Genico a Lierna), collocandoli abbastanza vicini per impedire la caduta delle castagne, ma abbastanza distanti per consentire il passaggio dell’aria calda, generata dal fuoco che veniva poi acceso a terra.
Le dimensioni dell’essiccatoio variavano da 2 a 4/5 metri di lato in rapporto alla quantità di castagne che il fondo poteva produrre, e potevano contenere circa 10/15 gerle da 30 kg di castagne, circa 4 quintali.
L’essiccatoio poteva essere ad un solo vano e in questo caso le castagne venivano scaricate vada una finestra esterna, aperta più in alto del graticcio. Se invece presentava un vestibolo nel quale si potevano depositare attrezzi, vestiti da lavoro, cibarie ecc., la graa era accessibile da questo con una scala a pioli.
Via via che la raccolta procedeva le castagne venivano scaricate sul graticcio e distribuite a formare uno strato uniforme. Lo strato delle castagne sul graticcio non doveva essere inferiore ai 40 cm, perché una parte del calore si sarebbe dispersa senza essere utilizzata, e non doveva superare i 60 cm perché la temperatura nella zona superficiale non sarebbe stata sufficiente all’essiccamento e l’umidità prodotta dalle castagne avrebbe favorito il rapido sviluppo di muffe.

funzionamento essiccatoioL’essiccamento avveniva in questo modo: nel locale sottostante c’era un braciere dentro il quale si mettevano a bruciare grossi ceppi (sciòcch) mescolati alle bucce secche delle castagne (pell di castegn) dell’anno precedente per soffocare la fiamma. Il calore distruggeva in breve le larve della Carpocapsa splendana (verme delle castagne). Ceppi e bucce alimentavano il fuoco, le bucce regolavano la combustione dei ceppi in modo che “el brasàss “, cioè bruciasse senza fiamma, ma con tanto fumo.
Il fuoco doveva funzionare regolarmente e produrre fumo per dare alle castagne il giusto aroma. Se si sviluppava una fiamma troppo alta le castagne bruciavano; se il calore era troppo scarso, le castagne non essiccavano bene e rischiavano di ammuffire nel corso dell’inverno.

Nei tempi precedenti la prima guerra mondiale la maggior parte delle famiglie andava a vivere nell’essiccatoio portando con sé soltanto la padella per fare le caldarroste, il paiolo per far bollire le castagne e il bariletto per l’acqua; per tutta la durata della raccolta non mangiava altro.
Attorno al rustico focolare si raccoglieva un tempo l’intera famiglia e, mentre si seguiva con attenzione l’essiccamento delle castagne, si cucinava nella marmitta appesa alla catena che pendeva dalla graa.
L’essiccatura delle castagne era un’operazione piuttosto difficile perché occorreva girare spesso i frutti per non farli seccare troppo.
La durata dell’essiccazione variava dai 20 ai 30 giorni. Dopo le prime due settimane di fuoco si procedeva al rivolgimento delle castagne sul graticcio. Le castagne venivano scaricate dalla graa avendo l’avvertenza di tenere grossolanamente divisi lo strato superiore da quello inferiore in modo da poterla ricaricare in posizione invertita. Le operazioni di essiccazione poi riprendevano fino a completamento. Piccole quantità di castagne si potevano essiccare anche in casa: si mettevano nei cesti e si appendevano nella cappa dei camini così che ricevevano calore e fumo. Oppure si realizzava un ripiano di scodech come prolungamento della mensola del camino che fungeva da piccola graa.

filet castagneUn altro sistema per conservare le castagne era la produzione di filét. Il filét si faceva infilando le castagne fresche con uno spago; in questo modo, si formava una collana anche molto lunga che veniva poi essiccata appendendola a una parete o sui balconi.

Un altro metodo di essiccazione era l’uso del caniccio o metato. Il caniccio era una sorta di piccola casetta, dove a livello del terreno era sempre acceso un fuoco di legna di castagno e a circa 2 metri di altezza erano poste le castagne ad essiccare su un piano costruito da pali, sempre di castagno. In questo modo con il calore del fuoco sottostante le castagne in circa 20 giorni si essiccavano.

Pestatura e Vagliatura delle Castagne
pestatura castagneQuando le castagne erano secche si procedeva alla battitura per separare il frutto dalla buccia secca.
Radunati intorno ad un grande ceppo o vicino ai gradini della abitazione,  i proprietari delle castagne cominciavano ad infilarle in speciali “sacch de tela de ca”, tessuti appositamente con canapa grossa affinché fossero più robusti possibile.
Erano stretti e lunghi 60/70 centimetri, alla estremità interna venivano cucite due palle di stracci, si riempivano a metà poi, uno per mano, venivano battuti sul ceppo o sui gradini con movimenti ritmici da tutti i partecipanti.
Dopo una decina di minuti i sacchetti venivano svuotati e si procedeva all’altra importante operazione: la vagliatura. Con il val, cesto semipiatto a largo ventaglio che, tenuto per i manici e scrollato con gesti sapienti, con un’operazione faticosa e monotona, faceva cadere la scorza per terra, mentre le castagne restavano al suo interno. Il vaglio veniva usato dalle donne che, con abilità, lo agitavano con brevi e rapidi movimenti ritmici in alto e in basso, a destra e a sinistra.
La mazza o spadija era un ceppo cilindrico o quadrato di quasi mezzo metro di diametro o lato, spesso 15-20 cm e munito di un manico ricurvo. La faccia inferiore aveva una superficie dentata con sporgenze a forma di tronco di piramide. Veniva manovrata abilmente con un movimento ritmico, simile a quello del pendolo.

Terminata l’operazione di vagliatura la castagna doveva presentarsi senza la pellicina e questo significava che il lavoro era stato fatto bene.
Non sempre si usava battere le castagne con i sacchetti di tela di canapa. A volte si usava un grosso ceppo di castagno scavato al centro a mo’ di mortaio e si battevano dall’alto in basso con il pesta castegn: un apposito pestello di legno, verticale con una traversa per manopola, in fondo al quale erano conficcati dei chiodi che servivano appunto a rompere il guscio delle castagne.
Altre volte questa specie di mortaio era costituito da una grossa pietra scavata, la cosiddetta pila. Tuttora se ne trovano alcune in disuso anche nelle nostre frazioni, a volte utilizzate come fioriere.

Cernita delle Castagne
castagne biancheL’ultima operazione di cernita, eseguita in genere dalle donne, veniva fatta più tardi durante le sere autunnali, spargendo le castagne su grandi tavoli per selezionare le castagne a seconda delle dimensioni e dello stato di integrità dopo la pestatura, per eliminare quelle marce o intaccate dal verme che venivano date ai maiali o, bollite, alle mucche, e per togliere i residui di sansa (camisa).

Le castagne venivano anche passate in appositi setacci  a trame differenti appesi alle travi dei soffitti, per ripulirle definitivamente dai residui: quelle che avevano ancora il guscio o la pellicina interna dovevano essere battute un’altra volta.

Infine si mettevano da parte, riposte in apposite cassapanche, quelle bianche e grosse, divise in due parti a seconda della pezzatura in quanto quelle più grosse impiegavano più tempo a bollire.

Le “castagne bianche” erano il prodotto finale, pronte per essere utilizzate per tutto l’inverno: insaccate e vendute, andavano a formare la parte più consistente del misero reddito dei contadini, mentre, cucinate, ne costituivano la base alimentare.

La Farina di Castagne
macinatura castagneMacinate in mulini ad acqua con macine di pietra opportunamente scanalate, le castagne diventavano una farina da impiegare come succedaneo delle più costose farine di cereali nella preparazione di polenta, focacce, pasta e zuppe.
Generalmente la farina di castagne veniva adoperata aggiungendo acqua ed un pizzico di sale e dopo un’opportuna amalgamatura era pronta per i diversi tipi di cottura ed era ingrediente di base per molti piatti poveri tipici del Lario e, più in generale, di tutte le zone in cui il castagno è diffuso.

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IL SENTIERO DEL VIANDANTE
Cenni Storici

domenica, Gennaio 1, 2012 @ 10:01 PM
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sdv gradini scavati nella rocciaL’attuale denominazione è stata coniata nel 1992 dall’Azienda di Promozione Turistica del Lecchese che ha riscoperto e sistemato, a uso turistico ed escursionistico, l’antico percorso che univa Lecco all’inizio della Valtellina utilizzando una dizione presente ad Abbadia e Mandello almeno dal 1859.
Quello che oggi chiamiamo Sentiero del Viandante era infatti originariamente un sistema viario non univoco, formato da sentieri chiamati con nomi diversi (via Ducale, via Regia, Strada dei Cavalli, via dei Viandanti, Napoleona) che collegavano localmente tra loro i vari borghi senza nessuna velleità di sviluppo viario unitario: i grandi traffici commerciali avvenivano infatti utilizzando la più comoda via lago, sfruttando i venti costanti che alla mattina spirano da nord verso sud e al pomeriggio in senso contrario.
Questo sistema di sentieri veniva invece usato dai viandanti, dal piccolo commercio locale, per piccoli spostamenti, come collegamento tra le varie roccaforti e torri di avvistamento dislocate a mezzacosta lungo il lago: infatti, fino all’inizio dell’Ottocento, la via migliore per raggiungere la Valtellina era considerata quella che da Lecco saliva a Ballabio, percorreva la Valsassina e raggiungeva Bellano, dove si ricollegava al percorso lungo la sponda del lago.

Nel 1606 l’ingegner Tolomeo Rinaldi fu incaricato dal governatore spagnolo del Ducato di Milano, il duca di Fuentes, di progettare una strada che unisse Milano al Forte di Fuentes, appena costruito vicino a Colico a difesa del confine con i Grigioni. L’ingegnere scartò l’ipotesi di sistemare la strada sulla sponda occidentale, ritenendola disastrata e troppo costosa da allargare per consentire il passaggio di un cavallo someggiato; scartò anche, a causa delle difficoltà dovute alla complessa orografia, l’idea di proseguire oltre Bellano lungo il percorso rivierasco e propose di seguire la via della Valsassina: che questa, tra Lecco e Bellano, fosse la via più facile, anche se non la più corta, è attestato anche dal fatto che fu scelta nell’autunno del 1629 dai Lanzichenecchi (28.000 uomini) al servizio dell’imperatore Ferdinando II d’Asburgo diretti, attraverso il Ducato di Milano, all’assedio di Mantova .
Il loro passaggio per queste terre è ricordato da Manzoni alla fine del capitolo XXVIII dei Promessi sposi: “Colico fu la prima terra del ducato, che invasero que’ demoni; si gettarono poi sopra Bellano; di là entrarono e si sparsero nella Valsassina, da dove sboccarono nel territorio di Lecco”.

Anche se non era considerata la migliore e  frutto di un progetto non unitario, una via di terra lungo la sponda orientale del lago di Como doveva esistere: lo storico Pietro Pensa la fa risalire all’epoca romana, ma secondo altri (ad esempio secondo Albano Marcarini) si tratta solo di una congettura. Nei documenti medievali dei comuni di Bellano, Dervio e Lecco (fine del XIV secolo) si fa riferimento a una strada pubblica costiera, ma si tratta, come dice ancora Albano Marcarini, di “citazioni frammentarie anche se interessanti”. Al 1606 risale il mai attuato progetto di sistemazione dell’ingegner Rinaldi. In alcuni documenti notarili del Settecento si fa riferimento, per un lungo tratto del percorso, a una via Regia o Ducale ma tale strada non è menzionata sui documenti cartografici dello stesso secolo (che però trascurano anche la Strada Regina). Durante l’epoca napoleonica (1796-1815) alcuni tratti dell’itinerario verranno sistemati o migliorati (da questo deriva il nome di Napoleona con cui la via è nominata in alcuni tratti).

Dopo la costruzione della strada militare lungo la riva del lago, inaugurata nel 1832, i vecchi percorsi perdono di importanza e cadono nell’oblio, per essere in seguito riscoperti, nella seconda metà del 1900, a scopo turistico.

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Fonti
Albano Marcarini, “Il Sentiero del Viandante”
APT Lecco, “Sentiero del Viandante”

Il Castagno

domenica, Gennaio 1, 2012 @ 09:01 PM
aggiunto da admin

Specie Castanea Sativa, appartenente, insieme alle querce e ai faggi, alla famiglia delle Fagaceae.
Originario dell’Asia Minore e introdotto in Europa Occidentale dai Romani, è un albero longevo, alto in media dai 15 ai 20 metri, capace di raggiungere anche 30-35 m di altezza e 6-8 m di circonferenza.
E’ presente nelle regioni montuose temperate fra i 300 e i 1000-1200 metri, a seconda della latitudine. Amante del sole pieno, vegeta meglio in posizioni esposte a nord/nord-est poiché meno soggette ai periodi di siccità estivi e con minori escursioni termiche. Vive di norma in zone con almeno 30 mm di piogge nei mesi estivi: con meno precipitazioni la produzione può essere fortemente ridotta. Il castagno esige una temperatura superiore a +10°C per almeno sei mesi. Resiste, comunque, bene alle basse temperature invernali (anche –20-25°C).
Le foglie sono caduche, la forma è ellittico-lanceolata, dentate ai bordi, misurano da 8 a 20 cm in lunghezza e da 3 a 6 cm in larghezza.
La loro consistenza è piuttosto tenace, quasi coriacea.

Fiori Castagne
I fiori, riuniti in infiorescenze (amenti), sono formati da fiori unisessuali  che si evolvono solo a fogliazione completa; i fiori maschili sono portati in infiorescenze lunghe; i fiori femminili, solitari o aggregati in numero da 2 fino a 7, sono localizzati alla base delle infiorescenze e protetti da un involucro verde, squamoso, destinato a costituire il riccio.
La fioritura si verifica fra inizio giugno e metà luglio in funzione della latitudine e delle condizioni stagionali.  I frutti (acheni), sono generalmente 3 inclusi in un riccio spinoso. I laterali sono emisferici mentre quello centrale è appiattito per cause genetiche ed anche per la posizione all’interno del riccio.
Le castagne vuote sono dovute ad una cattiva impollinazione

CULTIVAR MARRONI: Caratterizzati da frutti grossi, di forma quadrangolare, in cui la pellicina (episperma) non penetra all’interno. Presentano anche un solo frutto per riccio.La buccia è marrone più o meno scuro con strisce evidenti.
CASTAGNE: frutti poliembrionici in cui la pellicina penetra all’interno. Di questo gruppo fanno parte numerosissime varietà che prendono nomi diversi, anche dialettali, a seconda della zona.
MARRONI FRANCESI: alcuni sono di probabile origine italiana per cui le caratteristiche salienti sono del tutto simili a quelle dei Marroni italiani.
CULTIVAR IBRIDE: ottenute per incroci fra le cultivar europee (principalmente francesi) e il castagno giapponese (C. crenata) e, più recentemente, cinese (C. mollissima).

Nella nostra zona si trovano :

Tempuriva o Augustana: Le prime vengono raccolte già in agosto pronte per la consumazione.Venivano raccolte quando la castagna era ancora chiusa nel riccio, la buccia era tenera e acerba. Venivano solitamente bollite con patate e semi di finocchio.
Caravina: E’ una delle più buone, dal gusto dolce.
Gualdàn: E’ una castagna di notevoli dimensioni che matura ovunque, ma non essendo innestata è di qualità scadente, non rilascia la pellicina ed è destinata al bestiame.
Marùn: E’coltivata nelle zone rivierasche, è di color marrone chiaro e di grosse dimensioni, è una delle più dolci e apprezzate.
Salvàdegh o salvadegòtt: E’ prodotta da alberi non curati né innestati ed è piccola, senza particolari caratteristiche ma molto saporita se mangiata abbrustolita.
Topia: Piccola, scura, adatta alla conservazione perchè resistente all’attacco dei parassiti.

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Abbadia: La Cappellania Rappi

domenica, Gennaio 1, 2012 @ 07:01 PM
aggiunto da admin

madonna della cintura  - san lorenzoLe famiglie facoltose, nei secoli passati, fondavano nelle varie chiese del paese cappellanìe. Mettevano, cioè, a disposizione della parrocchia una certa quantità di beni immobili, dal cui reddito si traeva il necessario per celebrare delle messe sull’altare della cappellanìa, in suffragio dei defunti delle famiglie.
Contribuivano, così, al mantenimento di un sacerdote, visto che, per l’abbondanza delle vocazioni, in ogni paese ce n’era più d’uno.
Mercoledì 1 luglio 1705, davanti al Vescovo di Como Francesco Bonesana, mentre era papa Clemente, si presenta il chierico Bartolomeo Vaccani, procuratore di Antonio Rappi figlio di Arcangelo abitante nella parrocchia di S. Lorenzo dell’Abbadia, per chiedere di istituire per maggior gloria di Dio, della beatissima Vergine Maria dei Santi, per sostenere il culto divino in detta chiesa parrocchiale, e per pregare in suffragio delle anime del purgatorio, un beneficio sotto il titolo della Madonna della Cintura, riservandosi il diritto di patronato.
A causa di tale diritto la famiglia poteva eleggere in perpetuo il cappellano che maggiormente era di suo gradimento. Per ottenere quanto chiede allega numerosi documenti come ad esempio la stima dei beni che vengono messi a disposizione, le clausole che regolano la cappellanìa, una presentazione dell’arciprete di Mandello.
Da queste carte si ricavano alcune notizie curiose. La devozione alla Madonna della Cintura era molto diffusa. All’interno della chiesa Parrocchiale (attuale chiesa rotta) si trovava l’altare con la statua della Madonna, sul quale già vantava dei diritti Giuseppe Ambrosoni, della stessa parrocchia. Egli “pretende che la cappella ove presentemente resta collocata la statua della beata Vergine della Cintura sia di lui propria”. Si decide, allora, di celebrare le messe stabilite dal legato all’altare maggiore “sino a che resti eretto l’Oratorio fisso della B.V. della Cintura, che pensano quei parrocchiani d’erigere quanto prima”. E’ desiderio comune costruire una chiesetta dedicata alla Madonna della Cintura, che poi, in realtà, non verrà mai realizzata.
La famiglia Rappi sperava conferire la cappellanìa a qualcuno dei suoi discendenti, infatti una clausola dice: “essendo presentato, ed instituito a detto beneficio qualche chierico della famiglia, questo sintanto non sarà costituito nel sacro ordine del suddiaconato, non sia tenuto a recitare l’ufficio grande, ma solo l’ufficio della B.V. Maria”. Si concede una facilitazione ai chierici che si stanno preparando al sacerdozio, imponendo loro un obbligo meno gravoso, cioè la recita dell’ufficio della Madonna e non quello solenne. Chi è investito del beneficio, deve celebrare tre messe alla settimana per tutto l’anno. Vengono citate due confraternite: quella del SS. Sacramento e quella della Madonna della Cintura. Era il modo di allora per impegnarsi nell’apostolato dei laici. Ormai le cappellanie e il diritto di patronato sono spariti in nome di una maggior libertà e indipendenza del Vescovo nel governare la sua diocesi.

Fonte: Abbadia Oggi – 21 Gennaio 1994

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