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Chiesa di Corenno Plinio: Affresco “Il vescovo e i cinque apostoli”

sabato, Gennaio 28, 2012 @ 06:01 PM
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Chiesa di Corenno Plinio: particolare affresco "il Vescovo e i 5 apostoli"Varcata l’entrata della chiesa, sulla parete di destra, il visitatore odierno, come il devoto medioevale, si ritrova la figura di un santo vescovo. L’affresco è trecentesco, uno dei più antichi della chiesa. Si tratta di una pittura ancora arcaica con reminiscenze romaniche e forse anche bizantine. Il santo con il capo coronato da aureola, indossa i tipici paramenti vescovili delle celebrazioni liturgiche: la mitra in testa, la mano destra guantata benedicente mentre con la sinistra sorregge pastorale, segno del potere sul suo gregge. Da notare l’elegante ricciolo gemmato e il drappo bianco e rosso che adornano il baculo. La figura del vescovo è rinchiusa da entrambi i lati da un cornice composta da una semplice banda bicroma a spina di pesce.
La fisionomia del personaggio ricorda quella di sant’Ambrogio, arcivescovo della chiesa milanese, ma siccome l’immagine è priva del segno identificativo di questo santo, cioè lo staffile con cui combatte i nemici della chiesa, si potrebbe ipotizzare che si tratti di san Tommaso di Canterbury a cui è dedicata la chiesa. Occorre ricordare che quando venne dipinto l’affresco, il vescovo non era solo capo religioso della comunità cristiana, ma rappresentava anche la suprema autorità politica. Infatti il territorio di Corenno era stato infeudato alla famiglia Andreani nel 1271 da Ottone Visconti vescovo di Milano. Nel proemio degli Statuti Comunali di Dervio e Corenno nella loro ultima edizione del 1389 si afferma che questi territori “appartengono alla giurisdizione della Santa Chiesa Arcivescovile di Milano”.
Accanto al vescovo in un’altra cornice si presenta al fedele la teoria degli apostoli tra cui è riconoscibile solo san Bartolomeo che impugna un coltello, lo strumento del suo martirio. Infatti, secondo la tradizione, morì scorticato. Nell’affresco del Giudizio universale, Michelangelo lo presenta invece con la pelle pendente dal braccio come fosse un impermeabile. Manca più della metà dell’affresco sulla sinistra, rispetto all’osservatore. La perdita è dovuta allo sfondamento della parete meridionale, quasi nella parte centrale, effettuato in epoca barocca per ricavare una cappella dedicata alla Madonna.
Chiesa di Corenno Plinio: affresco "il Vescovo e i 5 apostoli"I cinque apostoli sono raffigurati in una perfetta frontalità, pochi particolari li differenziano gli uni dagli altri e tutti reggono un cartiglio su cui probabilmente era scritto il loro nome. La figure sono inserite entro una cornice dai lati differenti. Quella superiore contiene entro bande orizzontali una sequenza alternativa di scudi araldici e di rettangoli entro cui scorre una fascia multicolore a strette ondulazioni. Gli scudi araldici potrebbero appartenere ai componenti della famiglia feudataria degli Andreani. Il coronamento inferiore è determinato da un fregio a gonfi e grandi fogliami e girali fitoformi, di disegno piuttosto elegante. Lo stesso elemento ornamentale si riscontra anche come delimitazione inferiore, sia pure in tracce, ma ancora leggibili, nell’affresco dell’Adorazione dei Magi. Probabilmente i due riquadri affrescati sono da considerarsi coevi.

Significato teologico
Attraverso questo affresco la Chiesa ha voluto ribadire al fedele che è fondata sugli apostoli come afferma nel credo niceno. Il loro culto si diffuse rapidamente anche se di loro sono scarse le notizie storiche. Certamente l’apostolo più importante è san Pietro a cui era dedicata la pieve di appartenenza della parrocchia di Corenno. Tra gli apostoli c’erano alcuni protettori tra cui il più importante era appunto Pietro, il pescatore e san Bartolomeo protettore dei macellai.

Giudizio estetico
L’affresco è stato rimaneggiato, completato e ricostruito. L’opera non pare di grande pregio: le figure sono appiattite, i dettagli anatomici sproporzionati; basti osservare la forma e la dislocazione dei piedi o le orecchie a sventola. Tuttavia l’insieme non è privo di una certa vivacità sottolineata dai fregi nelle cornici, mentre la concezione generale si può collegare a una tradizione figurativa ancora di reminiscenze romaniche. Si deve tuttavia sottolineare lo sviluppo verticalizzante delle figure e lo svuotamento di ogni dettaglio emotivamente partecipativo, tipico di questo periodo di transizione dal romanico al gotico. Da notare l’uso delle aureole a rilievo, l’utilizzazione ormai stabilita di stemmi lungo le cornici degli affreschi e il tipo di fregi che incorniciano i riquadri.

Roberto Pozzi

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Corenno Plinio: Gli affreschi della chiesa di San Tommaso di Canterbury

sabato, Gennaio 28, 2012 @ 06:01 PM
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Gli affreschi nelle chiese non costituiscono un elemento decorativo, come potrebbe sembrare a noi che li ammiriamo oggi. Essi sono stati dipinti per diventare oggetto concreto a cui rivolgere un’invocazione di protezione o una preghiera di ringraziamento. Raffigurano la “storia” della divinità e dei santi per raccontare al credente le realtà invisibili. Oltre alle credenze, ci parlano anche delle ansie, delle paure e delle speranze della comunità, del senso che essa attribuiva alla vita. Per comprendere il loro messaggio occorre mettersi nell’ottica del “vicinus” del borgo medioevale in termini civili e del fedele in termini religiosi per il quale sono stati realizzati.

Dal punto di vista storico, gli affreschi della chiesa di san Tommaso di Canterbury coprono un arco di tre o quattro secoli e costituiscono una testimonianza visiva della vita religiosa e devozionale degli abitanti di quel periodo. Allo stesso tempo offrono elementi significativi per comprendere parte della cultura di quella gente, cioè il cosiddetto immaginario collettivo di una comunità in un preciso momento della sua storia.

Il Vescovo e i 5 Apostoli
L’Epifania
La Madonna del Latte e i Santi
San Cristoforo e San Francesco
Il supplizio di Santa Apollonia e San Gottardo
La Madonna in trono tra San Rocco e San Sebastiano
L’Adorazione dei Magi

Roberto Pozzi

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Corenno Plinio: La chiesa Parrocchiale

sabato, Gennaio 28, 2012 @ 03:01 PM
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Chiesa di Corenno Plinio

La chiesa parrocchiale, dedicata a san Tommaso di Canterbury, sorge lungo una via di comunicazione importante che collega Lecco con Colico attraverso la Valsassina e da Colico portava sia in Valtellina sia nei Grigioni attraverso i passi sopra Chiavenna. Si trova vicino al castello-fortificazione e quindi era probabilmente in origine una chiesa castellana come quelle di sant’Antonio abate vicino al castello di Vezio e san Leonardo vicino al castello di Orezia a Dervio, per questo motivo comunicava con la fortezza nella parte settentrionale.
Accanto al castello si era stabilita la famiglia dei conti Andreani a cui era stato infeudato il territorio, che divennero i mecenati di Corenno come succedeva nei grossi comuni di quell’epoca. Essi esercitarono un diritto di juspatronato sulla chiesa e quindi intervennero sull’evoluzione edificatoria e artistica. Il loro stemma è riprodotto a rilievo sul fronte marmoreo delle loro tombe e si ritrova ripreso su alcuni oggetti liturgici. In modo particolare è presente sopra l’affresco cinquecentesco della “Madonna in trono” sul lato meridionale. Il committente di questo affresco eseguito nell’anno 1538 è appunto Sigismondo Andreani, definito “fisicus”. Si ricorda anche un Giovanni degli Andreani “fisicus” che nel 1487 si era trasferito a Bellano.La chiesa fu edificata alla fine del XII secolo, negli anni immediatamente successivi alla morte e alla canonizzazione di san Tommaso. Il santo venne assassinato nel 1170 nella cattedrale di Canterbury dai sicari di Enrico II d’Inghilterra perché fedele al papato si opponeva alle sue ingerenze nella gestione della Chiesa locale.
corenno - stemma famiglia AndreaniIl Liber Notitiae Sanctorum Mediolani, verso il 1290 menziona una chiesa nella pieve di Dervio dedicata a San Tommaso martire morto da pochi anni. (In plebe derui, loco cortono, ecclesia sancti thome martyris). In origine la piccola chiesa legata alla famiglia del feudatario come cappella privata era anche destinata a funzioni funebri o a pratiche di devozione popolare. Le messe e i battesimi della comunità erano invece celebrati nella chiesa prepositurale di Dervio. A partire dal 1327 divenne una chiesa effettiva con un proprio cappellano, sempre legato alla famiglia Andreani. La chiesa fu riconsacrata il 3 novembre 1355.
Nel 1566 l’arcivescovo di Milano, Carlo Borromeo, nel suo progetto di riforma della chiesa ambrosiana, la trasformò in parrocchia autonoma slegandola da quella di Dervio e nominò un curato residente.

La chiesa è correttamente orientata verso est, il luogo dove sorge il sole; guadando l’altare, si ha alla sinistra il nord, ritenuto dai latini il luogo degli infedeli, verso dove si annunciava il Vangelo durante la messa prima della riforma liturgica del Vaticano II. In uno sguardo d’insieme non appare la sua antichità perché in essa si sono effettuati interventi di ristrutturazione molto rilevanti. Di origine romanica, venne ristrutturata in epoca gotica e gradualmente perse le sue caratteristiche essenziali romaniche negli elementi importanti: la facciata, la controfacciata, il presbiterio, l’abside e il campanile.

La facciata della chiesa a capanna è stata più volte manomessa, attualmente presenta un portale costruito nel 1698. Il corpo principale della navata ha conservato l’impianto originario, ma gli affreschi che si possono ammirare oggi furono nascosti per secoli a partire dal Cinquecento. Infatti, seguendo indicazioni di san Carlo Borromeo, le pareti furono più volte imbiancate come mezzo di disinfezione in periodi di pestilenza. Va rilevato che una modesta traccia dell’originaria immorsatura absidale si è conservata, presso la congiunzione con la parete laterale settentrionale, come indica anche chiaramente l’affresco dell’Epifania, che tende a curvarsi in una significativa inclinazione, prima di scomparire dietro la lesena che regge la ricaduta dell’attuale arco trionfale. È probabile che l’ampio presbiterio tardo barocco racchiuda, all’interno della sua pianta, il disegno semicircolare di un’abside romana

Tra Settecento e Ottocento la chiesa subì altri interventi: nel 1703 si ricavò una cappella laterale dedicata a san Giuseppe e un’altra dedicata alla Madonna. Quest’ultima è di stile barocco, con altare a colonne tortili in marmo nero di Varenna. Nel 1711 si eresse l’attuale campanile e si ampliò l’abside. Tra la fine Settecento e il primo Ottocento si realizzò l’altare.

Probabilmente all’origine era stata ricavata anche una cripta per la conservazione delle reliquie. Della primitiva costruzione romanica ora si possono ammirare soltanto due belle monofore nella parete verso sud; altre serie di monofore sono scomparse già in epoca gotica.

Nel 1966 un’importante opera di restauro ha portato alla luce parte degli affreschi votivi dipinti sulle pareti tra il Trecento e il Cinquecento.

Roberto Pozzi

APPROFONDIMENTI
Gli Affreschi
Le Arche Andreani

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La storia di Corenno e del suo castello

sabato, Gennaio 28, 2012 @ 03:01 PM
aggiunto da admin

Secondo gli Statuti medievali di Dervio e Corenno del 1389 le fortificazioni di Dervio che inglobavano la torre di Orezia, giungevano anche alla vicina Corenno dove sorgeva il castello-recinto con fossato, abitazioni ed una piazza dove partiva la strada per Vestreno, quindi per la Valvarrone. Della muratura che univa il castello di Corenno a quello di Dervio di Orezia non esiste più traccia, anche se probabilmente è da identificarsi con i tratti di muratura a protezione della stradina che correva a circa quota 300 da Corenno alla località Castello per poi inerpicarsi verso la Valvarrone. Purtroppo questa stupenda strada panoramica è stata travolta dagli interventi per la formazione della Statale 36 o superstrada per lo Spluga. A Corenno, come si è detto, risiedeva la famiglia Andreani, proprietaria del Castello che aveva avuto fino dal 1271 il feudo di Corenno dall’Arcivescovo di Milano Ottone Visconti. Il cognome indicava la discendenza da un Andrea, tanto che in alcuni documenti dell’inizio del Trecento viene riportato spesso come genitivo Andree. Questa famiglia non era originaria di Dervio, ma forse proveniente dai Grigioni. Alcuni storici posero l’inizio della presenza a Dervio con la conferma del feudo di Dervio, Corenno e parte del monte di Varenna redatto il 30 maggio 1271 da parte dell’Arcivescovo Ottone Visconti a favore di Jacobo Andriani detto Foxatus. Nell’atto di fondazione della Cappellania della Madonna del Rosario, però, redatto il 12 settembre 1327 si trova che un Ruggero Andriani aveva acquistato dei terreni a Corenno ed era avo di Baldassarre, figlio di Jacobo Andriani. La loro storia fu per secoli legata a Corenno, soprattutto attraverso il castello e la chiesa di san Tommaso di Canterbury e le Arche Andriani.

Nel 1039, secondo l’Arrigoni[1] Dervio, Corenno e Dorio sono alla dipendenza di Bellano. “Sulla fine della primavera la Repubblica delle Tre Pievi – Dongo Gravedona e Sorico -, posta in acqua le navi ben fornite di armi e armati, assieme ai Valtellinesi, prendono di sorpresa il paese di Dorio, e poi la flottiglia si spinge a Corenno, che trovato indifeso, occupano e saccheggiano, meno un forte sovrastante dov’eransi ritirati gli abitanti colle migliori masserizie. Il castello si arrese dopo tre giorni per mancanza di vitto e dell’aiuto dei bellanesi.” I pievesi e i Valtellinesi, per vendicarsi di un attacco subito da parte di alcuni paesi della riviera di Lecco legati al potentissimo arcivescovo di Milano, Ariberto da Intimiano, sconfissero gli abitanti di Corenno e Dervio ed entrarono in possesso del castello e del paese di Dervio, che si era arreso. Così gli abitanti, Dervio, Corenno e Dorio, dopo aver sostenuto quattro mesi di assedio e aver respinti replicati assalti, colla condizione di aver salva la vita e le masserizie cessarono di appartenere a Bellano e per alcuni anni fecero parte della repubblica pievese per cadere poi sotto il dominio dei milanesi

Nel Duecento e nel Trecento: con l’indebolimento del potere vescovile e la progressiva indipendenza dei Comuni, vi fu un periodo di grande confusione. Per la sua posizione strategica, al confine tra gli opposti interessi di Guelfi e Ghibellini, la sponda orientale del Lario fu teatro di scontri tra famiglie rivali dei Torriani e dei Visconti, che ambivano al dominio di Milano.

Secondo Antonio Maria Stampa che scrisse nel 1715 e che consulta altri storici come il Corio, Il Giovio, il Moreggia e il Ballerini tra gli altri, nel suo “Ristretto ovvero piccola cronaca degli annali gravedonesi”, ed. S. Monti, “il Prencipe Barnabò dapprima ordinò ai Comaschi di invadere Gravedona, ma poi fu inviata una missione per mitigare l’ira di detto principe, “principiarono la fabbrica del Castello di Rezzonico e quello di Corenno e furono terminati nel 1357, l’uno per trattenere li comaschi, acciocché non si inoltrassero con lasciarsi un castello alle spalle, e l’altro per frenare ed opponersi a quelli di Bergamo e Valsasina, che per quella parte dovevasi inoltrarsi, come altresì fortificarono Varenna e Bellano.”

Nell’anno 1364, tramontò definitivamente il potere temporale dell’Arcivescovo di Milano, anche Corenno venne ceduto ai Visconti il cui potere si stava affermando in modo stabile sul territorio. In quel periodo la comunità di Corenno era unita a quella di Dervio come è attestato negli Statuti comunali del 1389 che menzionano il castello e il suo fossato.

Nel 1402 morì Gian Galeazzo Visconti, massimo esponente della famiglia, che aveva sposato una figlia del re di Francia e ottenuto il titolo di duca di Milano. Con la sua scomparsa, si inaugurò un periodo di grande incertezza politica nel ducato. Alcuni paesi della riviera, come Dervio, passarono sotto il dominio dei Rusconi di Como. Corenno invece venne infeudata ai Malacrida, assieme a tutto il territorio settentrionale del Lario. Da questa data si staccò da Dervio e rimase comune indipendente per ben cinque secoli. In seguito, per un trentennio i Veneziani cercarono di conquistare le terre di Milano, con una fortuna di breve durata. Riuscirono soltanto ad occupare la Valsassina e a giungere fino al lago per mettere navi in acqua e fare di Lecco, secondo il loro sogno “una venetia piccinina”.

Nell’anno1450 Corenno giurò fedeltà a Francesco Sforza, nuovo Duca di Milano. Nel 1481 la sponda del Lario da Corenno a Mandello venne ceduta in feudo a Pietro dal Verme, in seguito al suo matrimonio con la tredicenne Chiara Sforza. Cinque anni dopo, Chiara, senza figli, avvelenò il marito, entrò in possesso delle terre e si risposò. Dal suo secondo matrimonio nacque un figlio che, oberato dai debiti, vendette Corenno e tutti i suoi possedimenti a Francesco Sfrondati, membro del Senato di Milano. (M. Casanova)

Tra gli anni 1527 e 1532, mentre ormai le Signorie crollavano sotto l’urto dei grandi regni che si erano formati Oltralpe, un audace personaggio, divenuto leggendario spadroneggiò sul Lario. Era Gian Giacomo Medici, detto ironicamente il Meneghino (piccolo Medici). Questi attaccava le terre fedeli a Milano, terrorizzando e depredando i paesi del lago che si rifiutavano di rifornire le sue truppe. Per quanto sorprendente, il Meneghino era zio di S. Carlo Borromeo e fratello del papa Pio IV. Quest’ultimo per rimediare alle sue scellerataggini concesse importanti indennizzi ai Comuni saccheggiati dal fratello.[2]

Nel 17 febbraio 1532 vi fu un grande scontro fra la flotta medicea e quella ducale. Pur senza aver subito gravi perdite, i medicei ebbero la peggio. Il 18 febbraio i medicei tentarono di sbarcare a Corenno, ma la popolazione li respinse. La flotta medicea si spinse allora verso Bellano e Colico che furono saccheggiate, dove riuscirono a razziare solo miglio e castagne. Dopo la presenza del Meneghino si fece sentire sul territori più forte la dominazione Spagnola preoccupata della difesa dai Grigione e intenzionato ad unire il Milanesado con i suoi possedimenti nelle Fiandre senza passare dalla nemica Francia.

Il comandante Pedro Henríquez Acevedo Conte de Fuentes, giunse a Milano nel 1600 con i poteri di dirigere la politica spagnola in Italia. Era un governatore di alto vigore, fortunato combattente e fidato consigliere del re. Nelle Fiandre dal 1595 aveva avviato un programma di opere di fortificazione, che rimase la sua principale base per la gestione della politica. Gli obiettivi della sua politica nel Milanesado erano soprattutto la sicurezza del paese con la costruzione di grandi opere di fortificazioni, utilizzando perfino i campanili e il presidio dei confini con la costruzione di piazzeforti.

A Colico, sul monte Monteggiolo fece costruire una grande fortezza per difendersi sia dalla Repubblica delle tre Leghe sia dai Veneziani che passavano di lì per commerciare con il nord. Prima aveva fortificato le città (Novara, Mantova, Pavia e Cremona) e aveva creato quattro nuove piazzeforti (a Soncino, a Mozzanica, a Casalmaggiore e a Colico). Per realizzare un efficiente sistema difensivo dapprima creò delle imprese militari che dovevano provvedere al funzionamento delle caserme. E in questo suo progetto si scontrò con la resistenza delle comunità costrette alla tassa di alloggiamento delle truppe. E in secondo luogo dovette provvedere alla sistemazione dei percorsi tra le città e i presidi. Scelse il Monteggiolo appartenente al contado di Como perché era raggiungibile via lago con imbarcazioni.

Nel 1606 Acevedo propose di far costruire una strada da Milano a Colico e incaricò Sitoni e Vacallo di “visitar los caminos que de Como y de Leco van al dicho fuerte”. Dapprima pensò a una strada che da Como arrivasse a Colico lungo la sponda occidentale, ma le comunità si opposero e proposero una strada sull’altra sponda. A Tolomeo Rinaldi, ingegnere camerale e Gaspare Baldovini ingegnere di fortezze si chiedeva di trovare la strada migliore, la più breve e la meno dispendiosa. Essi calcolarono per la sistemazione della strada della sponda occidentale £. 210.000 e quantificarono per la strada orientale una spesa di £. 82.000. Rinaldi controllò che per il tratto da Colico a Dervio si spendeva poco per il passo di un cavallo da soma. Per il difficile percorso da Dervio a Bellano si poteva usare la via della Muggiasca, con un ponte al Portone, e uscire a Cortenova in Valsassina, da cui si poteva andare agevolmente in piano tenendo a sinistra il Pioverna fino ai Forni di Introbio, dove occorreva rompere il Sasso del Bajedo e poi seguire la strada fino a scendere a Laorca e finalmente a Lecco. I Valsassinesi si opposero tenacemente a questo progetto. Il Giussani afferma che fu realizzato, mentre l’Arrigoni nega la sua esistenza. Però Pedro Hernriquez Acevedo, nel 1610 mandò truppe al Forte per la Valsassina perché era il tragitto più breve e le comunità avevano aggiustato la strada. In quello stesso periodo (1592 – 93) i veneziani avevano costruito la strada Priula  nella Val Brembana che congiungeva Bergamo con lo sbocco nella Valtellina poco distante da Morbegno.

Nel 1607 probabilmente si effettuò un adeguamento di tutta la strada. Questo un ulteriore indizio di adeguamento del percorso scelto pare testimoniato dal rifacimento del ponte di San Quirico di Dervio, sul torrente Varrone, eseguito nel 1607. In tal modo restava aperta una pista per Fuentes, più breve del percorso da Como poiché lunga 25 miglia da Lecco al Forte e 30 miglia da Lecco verso Milano. L’onere della manutenzione e del miglioramento ricadeva però sui comuni, in seguito alle ingiunzioni dello Stato.

Già nel 1610 vi passarono 3000 soldati che ne approfittarono per alcune scorrerie risalendo da Introbio fino alla valle del Bitto, e allarmando i Grigioni che rafforzarono i presidi di Cosio e Mantello. passarono anche compagnie scaglionate, che sostarono per esempio a Margno e a Crandola.

Nel 1620 più di 250 cavalieri vi transitarono diretti a Fuentes per la guerra di Valtellina.

Nel 1629 le truppe dei Lanzi dirette alla conquista di Mantova seguirono lo stesso percorso a ritroso. Gettarono un ponte di barche sull’Adda vicino a Dubino e, dopo aver saccheggiato Colico, passarono per il sentiero dell’oratorio di San Rocco e per la strada di San Nicolò, sopra la Cà, quindi da Dorio proseguirono a Corenno e salendo da Bellano, entrarono per la Valsassina. In un sol giorno arrivarono a Cortenova. Una volta a Lecco parecchi si dispersero e si dedicarono al saccheggio verso la chiusa a sud e verso l’Abbadia a Nord. Infine superarono il ponte di Lecco sull’Adda intorno al 12 ottobre.

Alla fine di agosto 1629 il governatore Spinola Doria aveva invitato il conte Serbelloni a visitare la strada: “di Colico e di Valsasena, acciò la cavalleria alemanna, quando verrà l’occasione possa passare facilmente per terra a Mandello e di là a Lecco, ove sta preparato un ponte”. Ma il Collalto non stette ad attendere l’ordine dello Spinola e il 12 settembre le truppe del Mèrode erano già a Lecco, seguite poi da altre compagnie, che sommavano a 25.000 soldati e con le famiglie 40.000. A Milano si seppe di questo passaggio il 10 settembre da un cavaliere corso da Forte Fuentes, dove molti soldati fuggirono e si ripararono a Lecco, unendosi alla sopraggiunta compagnia del Rainoni per il controllo del borgo.

Nell’autunno del 1630, il comune di Dervio ottenne che l’alloggio di un corpo alemanno, risiedesse piuttosto a Bellano per evitare. “un’immensa rovina, il totale sterminio della povera gente, già afflitta da inenarrabili miserie”.

Nel 1631 analogamente avvenne con il Rohan: battuti gli spagnoli di Fuentes a S. Martino di Morbegno, ci si attendeva che scendessero lungo la solita pista, cosi che i valsassinesi corsero alla difesa di Portone; invece in Rohan si acquartierò in Mantello e sul lago di Mezzola. Nel febbraio le truppe francesi si divisero in due tronconi: uno assalì la Torretta di Curcio e liberò la strada del lago; l’altro risalì la valle del Bitto, valicò il Legnone e scese a Premana, unendosi a Introzzo con i cavalieri saliti da Dervio, i 6000 seguirono ancora la strada di Bellano, batterono il presidio del Portone e, devastando la Valsassina, proseguirono fino al Ponte di Lecco, dove furono fermati dal mastro di Campo Ippolito Crivelli, di stanza a Lecco, e dal capitano Paolo Sormani.

In quel periodo a Corenno le mura del castello erano presidiate da una compagnia spagnola guidata dal capitano Pedro de la Ringa, che con sbarramenti riuscì ad evitare i saccheggi nel borgo. Questi fece abbattere case e stalle poste non lungi dal castello perché non servissero al nemico come luogo per posizionare le batteria e distruggere il paese.

Nel 1633, infatti fu ordinato al comune di Dervio di accomodare il suo tratto di strada per la cavalleria del Balosso diretta in Alsazia sotto pena che “verrà fatto sostare e mantenere in comune il detto corpo oltre al pagamento dei danni”. Nell’anno 1633, la strada pur disagevole aveva però anche valenza economica, perché vi passarono 70 cavalli carichi di armature dirette da Milano al Tirolo. Secondo antica tradizione serviva all’approvvigionamento delle ferriere di Lecco con i materiali ferrosi scavati o lavorati nella valle.

Non venne trascurata anche l’alternativa della navigazione, se attuata con vento favorevole, sia per i trasporti, sia per esigenze militari, come avvenne fra Lecco e Dervio ancora nel 1704 contro il Davia per 700 dragoni e corazzieri del Toralbe, inviati dal principe di Vaudemont, che proseguirono per la strada costiera.

I miglioramenti, che anche parzialmente erano stati condotti sull’intero tragitto, vennero così sfruttati non solo dagli Spagnoli ma anche dai loro nemici. I valsassinesi e i lecchesi in questi anni riportarono enormi devastazioni con gravi ricadute nell’economia specialmente quella mineraria e metallurgica, a discapito di tutto lo Stato.

Nel 1646 ai paesi della Riviera furono richiesti 17 soldati guastatori per il riatto delle strade.

Nel 1704 sempre per Lecco e la Valsassina passarono i 280 cavalieri imperiali del marchese Davia dirette all’assedio di Fuentes, pur poi fallito per l’arrivo da Lecco di 50 dragoni a piedi;

Nel 1706 contro il forte Fuentes, ultimo ad arrendersi nello Stato, vi transitarono le truppe del barone Kraustenein con 300 fanti dei cavalieri Carlini, Zozel e Frinstein e a nove giorni dopo i due cannoni con cui abbattere Fuentes.

Quando nel Settecento la fortificazione di Corenno perse ogni funzione difensiva, secondo il Catasto Teresiano il terreno venne destinato a vigna. La muratura ad ovest fu poi abbattuta per consentire la vista sul lago e per una maggior esposizione al per le viti.

Entro le mura del castello, il 27 e 28 giugno 1859 alloggiò il Corpo delle Guide a Cavallo della Brigata Garibaldi che accompagnava il loro generale che da Lecco si stava recando in Valtellina: in quell’occasione il comune dovette sborsare 130 razioni di vino per i soldati, 77 di fieno vecchio e 3 somme avena per i loro cavalli.

Gli scrittori parlano del Castello

Paolo Giovio che nel Cinquecento in giro nelle terre che Francesco Sfondrati aveva ricevute in Feudo da Carlo V, per descrivergliele poi in Larius, scopriva che “adiacet Corenum cum arce”, cioè che il borgo era addossato a una roccia e aveva una rocca.

Nel Seicento, Sigismondo Boldoni il quale, pure con il suo Larius, ci informa che sul punto più alto c’è una rocca per la più parte rovinata; ma, aggiunge, giocondissima per le dolci aure che vi spirano.

Nel Settecento è la volta di Anton Gioseffo Della Torre di Rezzonico a narrare, ancor egli con Larius, che la rocca di Corenno fu “munitissima, et plura bellorum tulit incomoda” e che a bruciar Corenno fu il lecchese Francesco Morone, comandante delle truppe cesaree.

Ai tempi di Anton Gioseffo la rocca di Corenno era già “semidiruta”.

Così nell’Ottocento Ignazio Cantù in Quattro giorni in Milano può rilevare: “Serba Corenno le reliquie del castello appartenente al conte Andreani-Sormani”.

Roberto Pozzi

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[1] G. Arrigoni, Notizie storiche della Valsassina e delle terre limitrofe, milano 1840

[2] M. Casanova e G. Pensa, Corenno Plinio, Bellavite.

Castello di Corenno: Indagine Archeologica

giovedì, Gennaio 26, 2012 @ 12:01 PM
aggiunto da admin

Nel 2005 si realizzò un’indagine archeologica nell’area della fortificazione medioevale. Dallo scavo di circa 200 mq. all’interno della cintura muraria a ridosso del perimetrale est è emersa una stratificazione di sette strati rappresentativi di un arco di tempo che va dall’età del bronzo a un secolo fa.

Nello strato I si è rinvenuta un’imponente struttura di pietre di un muro lungo complessivamente 17 m. e largo da 1 a 3,5 m. Gli archeologi lo definiscono un pietrame disposto a secco senza matrice con pietre di forma appiattita e spigolosa. Tra queste pietre hanno rinvenuto frammenti ceramici di età preistorica. La muratura in gran parte asportata poggia sullo strato naturale (terra e roccia) e cinge il terrazzo naturale addossandosi alle ghiaie sterili del fianco est e sud del dosso. Si tratta di un grande muro a secco che recintava la parte alta del promontorio. Si sono recuperati: materiali ceramici, frammenti di pietra ollare, resti ossei di animali. Si può quindi ipotizzare che si tratti dei resti di un castelliere preromano simile a quello di Ramponio in Val d’Intelvi.
Sappiamo infatti dallo storico Tito Livio che nel nel 189 a.C. Marco Claudio Marcello conquistò i territori attorno a Como, e ben 28 castellieri (castella) del territorio si sono consegnati ai Romani dopo la resa degli Insubri. Il console fu magnanime con i vinti e i Comensi vennero legati a Roma da un foedus, un vincolo federativo, nel rispetto delle autonomie locali. In cambio poté contare sulla loro assoluta e perenne fedeltà.

Dal I al II strato vi è uno iato fino all’età medioevale, segno possibile di un abbandono della fortezza in quella zona in relazione alla presenza romano e a un lungo periodo di pace sul territorio.

Al II strato, a parere degli archeologi, è riconducibile una parte di un muro in pietre legate da malta della lunghezza di m. 4,65. Questa struttura è visibile attualmente nella porzione inferiore dell’angolo sud est del castello. È possibile che questo muro fosse collegato con la torre più antica verso Nord. È anche probabile che per questa costruzione si sia usato il materiale proveniente dalla demolizione della struttura dell’epoca preistorica.

Poi c’è una fase di abbandono e nella fase VI vi è la costruzione dell’imponente castello recinto che va a inglobare la torre preesistente. Questo muro della fase VI poggia direttamente sulla fondazione della fase muraria di fase II. Nella fase VII si sono ritrovati resti di piccoli edifici agricoli della fase IV.

I reperti trovati nella zona I risalgono all’età del bronzo, circa del IX secolo avanti Cristo. Se si tiene in considerazione il materiale ceramico recuperato, si osserva che vi sono frammenti relativi alla fase finale dell’età del Bronzo. Quindi è lecito supporre che l’opera in muratura sia da riferire al perimetro di un castelliere che, con buona probabilità, occupava tutto il rilievo del castello di Corenno, si tratta quindi di un’imponente struttura in pietre a secco, visibile lungo tutto il lato Est dello scavo e lungo il lato corto sud. Si tratta di una massicciata costruita di pietre di media e grandi dimensioni che cinge il dosso naturale precedente all’edificazione del castello. La struttura parzialmente asportata poggia direttamente sullo strato naturale. Il castelliere è un piccolo insediamento o villaggio, fortificato protostorico (età del Bronzo e del Ferro) sorto in genere in posizione elevata facilmente difendibile, in cui una difesa naturale veniva sfruttata e rafforzata dall’opera dell’uomo. I castellieri possono essere muniti da una o più cinte murarie, costruite a secco, con la tecnica detta a sacco. All’interno del castelliere a volte è possibile individuare alcune strutture a terrazzamento che formano zone piane adatte alla costruzione delle abitazioni, della quali tuttavia non si sa molto.

(Il testo è ripreso da “Carta archeologica della Provincia di Lecco. Aggiornamento, anno 2009, pg 59 – 66)

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Dorio – Luoghi e Monumenti

martedì, Gennaio 17, 2012 @ 08:01 AM
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CHIESA PARROCCHIALE DI SAN GIORGIO
È l’attuale parrocchiale di Dorio fu terminata nel 1676,ampliata nel 1712, per poi essere demolita e ricostruita nel 1859. Inizialmente intitolata alla Beata Vergine, fu poi dedicata a S. Giorgio, nel 1787, quando la vecchia parrocchia nel nucleo di “Mandonico” divenne pericolante. La sua architettura è di stampo tardobarocco, con notevole campanile e facciata scandita da quattro lesene che reggono un timpano classicheggiante.

CHIESA DI SAN GIORGIO (MANDONICO)
Costruita attorno alla metà del 1400 e fortemente voluta dagli abitanti del paese che parteciparono al suo allestimento. Di particolare interesse gli affreschi (opera imputabile a Battista da Musso) rappresentanti: S. Giorgio che uccide il drago e la Madonna col Bambino, nella fascia superiore, S. Michele, S. Antonio Abate, ancora una Madonna col Bambino e un Santo Vescovo, nella fascia inferiore.
Restaurati nel 1983 costituiscono solo una parte dell’antica decorazione che comprendeva anche l’abside, con gli Evangelisti, e la cappella a nord, così veniva descritta nelle visite pastorali di fine Cinquecento.In contrasto con le sue origini è il biancore dell’intonaco, frutto della ristrutturazione di fine Settecento.
Per saperne di più…

CHIESA DI SAN ROCCO
Costruita nel 1848, con i caratteri dell’edilizia minore barocca, qui vi fecero voto gli abitanti di Dorio nel 1856 (come ricorda la targa all’ ingresso) in seguito all’epidemia di colera. Attorno ad essa sorgeva il cimitero, dove probabilmente venivano sepolti gli appestati.
Situata lungo il “Sentiero del viandante” dal suo belvedere si gode di un ampio panorama che spazia su tutto il lago con Dorio e i suoi terrazzamenti in primo piano. Tutti gli anni, il 16 Agosto, gli abitanti salgono alla Chiesa per rinnovare il voto.

CHIESA DELLA MADONNA IMMACOLATA
Costruita nel 1969 in località “Sparesee”, in ricordo della Beata Vergine, alla quale era stata inizialmente dedicata la Parrocchia, la chiesa è conosciuta come Vergine dei Monti.

BORGO DI MANDONICO
Mandonico costituisce il nucleo originario dell’abitato di Dorio, e fu costruito e organizzato a questa quota, alto sul lago, per fuggire ad incursioni, saccheggi e calamità belliche nei secoli passati. Con l’alternarsi di queste minacce, a partire dal XVIII sec., gli abitanti di Mandonico si sono via via trasferiti più in basso, a ridosso del lago, dove erano più agevoli gli spostamenti e le attività economiche che si andavano diversificando, tra cui la pesca. La continuità è sottolineata dal rinnovato culto di S. Giorgio, a cui è dedicata la chiesetta di Mandonico e anche la Parrocchiale di Dorio. L’ultima famiglia stanziale lascia Mandonico attorno al 1920. Ma i legami, non solo affettivi con il vecchio nucleo permangono, e sono tuttora visibili nei segni delle attività agricole come gli orti a ridosso delle abitazioni di Mandonico.

Abbadia: Le Campane della Chiesa di San Lorenzo

domenica, Gennaio 1, 2012 @ 07:01 PM
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Campanile della Chiesa di Abbadia LarianaSiamo abituati a sentire il suono delle cinque campane della nostra chiesa parrocchiale nelle occasioni liete e in quelle tristi; forse ci siamo chiesti: quando sono state fuse? che tonalità hanno? Qualcuno dei più anziani si ricorda quelle esistenti precedentemente e il giorno della consacrazione del concerto; può darsi che esista anche qualche fotografia dell’avvenimento.
Spulciando in archivio, si trova il fascicolo che descrive le qualità tecniche e le iscrizioni incise sulle campane. Un verbale della Curia di Como dice: “Rendiamo noto che l’anno del Signore 1953, giorno 21 novembre S.E. Rev.ma Mons. Felice Bonomini Vescovo Diocesano ha consacrato due nuovi concerti di campane. Il maggiore destinato alla chiesa parrocchiale di S. Lorenzo, il minore alla chiesa del S. Cuore sui Piani Resinelli… Col parroco locale M.R. Sac. don Giovanni Zaboglio erano presenti i Reverendi Sacerdoti del Vicariato di Mandello: don Bernardo Cusini parroco di Olcio, l’Arciprete Vic. For. di Mandello Sac. Giuseppe Castelli, il Sac. Mario Galli Vic. Coop. della parrocchia del S. Cuore, Sac. Lorenzo Beretta Vic. Coop. di Mandello, Sac. Marco Gherbi parroco di Lierna col suo Vic. Coop. Sac. Broggi Francesco”.
La ditta che fuse le campane aveva sede in Valtellina: Giorgio Pruneri di Grosio. Nel suo timbro si dice che venne fondata nel 1822. I documenti di allora furono firmati dal Dott. Ing. Paolo Pruneri. Egli afferma che il concerto di cinque campane è in tono Re Internazionale. Come testimoniano i maestri Sac. Domenico Gadola e Sac. Mario D’Amato la prima campana risponde alla nota Re, la seconda al Mi, la terza al Fa diesis, la quarta al Sol, la quinta al La.
Tutte hanno un timbro di voce squillante e pastosa. Il peso complessivo è di kg. 3.702. Ogni campagna è dedicata a dei santi e porta delle iscrizioni con frasi latine augurali e il nome dei donatori.
Sulla prima campana di kg. 1.286 si legge: Rex Regum et Dominus Dominantium (Re dei Re e Signore dei Signori) – Pio XII Pont. Max., Felice Bonomini com. Eccl. Ep., Joannes Bapt. Zaboglio Par. Sufficiendum curavit, anno Mariae MCMLIV – Comm. Carlo Fiocchi, Pia Fiocchi, Alberto Locatelli. E’ dedicata a Cristo Re.
Sulla seconda di kg. 918,500 è scritto: Assumpta est Maria in coelum: gaudent angeli. Nelida Rainoldi, Guido Cima. E’ dedicata alla B.V. Assunta, a S. Agnese, a S. Maria Goretti, a S. Teresa.
Sulla terza di kg. 641,500 si legge: Venite justi in adiutorium populi Dei (Venite giusti in aiuto del popolo di Dio). Giulia Vaccari, Giovanni Morassuti. E’ dedicata a S. Lorenzo, a S. Antonio Abate, a S. Antonio da Padova, a S. Giorgio. Sulla quarta di kg. 496,500 è scritto: Veni sponsa Christi et coronaberis (Vieni sposa di Cristo e sarai coronata).
Concetta Zani, Luigi Canali. E’ dedicata a S. Eurosia, al S. Cuore di Gesù, al S. Cuore di Maria, a S. Giovanni Battista.
Sulla quinta, di kg: 359,500 si legge: Da mihi animas cetera tolle (dammi le anime, toglimi le altre cose). Amelia Donini, Mario Canali. E’ dedicata a S. Giovanni Bosco, a Maria Ausiliatrice, a S. Giuseppe, a S. Domenico Savio.

Fonte: Abbadia Oggi, 21 Novembre 1989

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Abbadia: La Madonna della Cintura nella Chiesa di San Lorenzo

domenica, Gennaio 1, 2012 @ 06:01 PM
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madonna della cintura  - san lorenzoLa spiritualità agostiniana è testimoniata nella parrocchia di Abbadia anche dalla devozione alla Madonna della Cintura.
Due feste sono particolarmente care alla nostra popolazione: S. Apollonia il 9 di febbraio e la Madonna della Cintura la prima domenica di settembre.
Nella chiesa parrocchiale, nell’altare laterale di destra, si conserva un’elegante statua della Madonna con Gesù Bambino in braccio, che una volta all’anno viene esposta in un bellissimo trono e portata in processione nella prima domenica di settembre. Appesa alla mano di Maria e del Bambino vediamo una piccola striscia di cuoio, è la cintura che dà il nome alla festa. Spiegava don Raspini nel bollettino “La voce del Pastore” del settembre 1937: “Ci sappiamo allora dare una ragione di quella striscia di cuoio che tiene in mano la Vergine nella bella statua che veneriamo, e del fatto che mentre i confratelli delle parrocchie vicine si cingono i fianchi col solito cordone, da noi portano invece la cintura di pelle”. Il motivo è di tipo storico. I Servi di Maria, dei quali è nota la pietà verso la Vergine, avendo ereditato dagli eremiti di S. Agostino la devozione alla Madonna della Cintura, l’hanno introdotta nel nostro paese. Questa tradizione fa riferimento anche alla Madonna Addolorata (che si venera ai Campelli) o alla Madonna della Consolazione. La storia dice che la Vergine abbia consegnato la cintura a S. Monica, afflitta per morte del marito e per la vita sregolata del figlio Agostino non ancora convertito. La madre del crocifisso consola la madre di un giovane che si è incamminato sulla via della perdizione. In ogni epoca ci sono delle persone addolorate per vari motivi, che si possono rivolgere con fiducia a Maria per avere conforto e consolazione. La citura è simbolo di appartenenza alla Madonna e di una vita corretta e virtuosa, piena di fede, di giustizia, di fortezza e di purità. Come dice ancora don Raspini nel bollettino del settembre 1935, la statua in legno che veneriamo nella chiesa parrocchiale è antichissima e di squisita fattura ed era già presente nella vecchia chiesa ora conosciuta come “Chiesa Rotta”. Venne fatta restaurare da don Giovanni alla fine degli anni 70 ed ora si presenta a noi nella sua bellezza originale. La Madonna, in piedi, si erge come una figura ieratica, avvolta da un ampio ed elegante panneggio. Il velo è bianco, la veste rossa, il manto azzurro, entrambi con ricami dorati. Dalla mano protesa verso i fedeli pende la cintura, mentre con l’altro braccio sostiene il bambino, che a sua volta sorregge un piccolo mappamondo sormontato dalla croce. Tutta la statua è sorretta da una nuvola da cui sbucano tre cherubini.

Fonte: Abbadia Oggi – 21 Gennaio 1991

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Abbadia: Il Battistero della Chiesa di San Lorenzo

domenica, Gennaio 1, 2012 @ 06:01 PM
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battistero san lorenzoNel 1989 venne costruita l’attuale fonte battesimale ad opera dello scultore Fulvio Simoncini, che proprio in nell’anno precedente (1988) era stato apprezzato dai critici e dalla popolazione per il monumento alle vittime della violenza, che si vede passando da Pescate, vicino alla chiesa.
La fonte è di forma esagonale e sostiene una vasca circolare: due figure geometriche semplici, ma classiche, simbolo di perfezione. L’idea teologica guida è la seguente: il Cristo è il Salvatore di tutti gli uomini, lo Spirito Santo ha guidato Maria, Elisabetta, Giovanni il Battista, Gesù, i suoi discepoli e continua a santificare tutti i battezzati. In sei formelle pulite ed essenziali, ma plastiche e piene di sentimento, lo scultore fa passare tutto il mistero della salvezza secondo la rivelazione cristiana. La storia del mondo è cambiata per la nascita di Gesù: “Et Verbum caro factum est”. L’imperatore romano sembrerebbe attirare l’attenzione di tutte le genti, delle folle, ma la sua gloria cade in rovina, mentre continua a vivere il Cristo nato nel nascondimento e nell’umiltà. Quando Maria fa visita ad Elisabetta, il bambino che deve nascere da lei ha un fremito, ed ella, ripiena di Spirito Santo, esclama: “Benedictus fructus ventris tui” Benedetto il frutto del tuo seno. Maria, in ginocchio come un’umile serva, confessa e proclama che quanto sta avvenendo in lei è opera di Dio ed eleva a Lui il cantico del Magnificat. La quarta formella (nella foto) raffigura Giovanni Battista che indica ai suoi discepoli e alle folle Gesù: “Ecce Agnus Dei”. Egli dice che ha visto lo Spirito di Dio scendere come colomba dal cielo e posarsi sopra il maestro che sta cominciando la sua vita pubblica di annuncio del Regno. Nel momento del battesimo di Cristo, il cielo si apre, si manifesta ancora lo Spirito di Dio che, come una colomba, si posa su di Lui. E dall’alto viene una voce: “Tu es filius meus dilectus” Tu se il mio figlio che amo. Infine il mistero del Salvatore si conclude con la morte in Croce, che tuttavia fa intravvedere la risurrezione: “Oportebat Christum pati et resurgere” Era necessario che Gesù soffrisse e risorgesse. Lo scultore, con una modellazione delicata e una luce quasi soffusa, descrive il messaggio che vuol comunicare in maniera chiara, ma nello stesso tempo molto lascia sottintendere, soprattutto con gli sguardi delle donne in procinto di diventare madri, o con le figure ieratiche del Battista. Le folle, appena abbozzate, col loro gioco di ombre e di luci, danno il senso dell’intuizione del mistero, che tuttavia diventa comprensibile e luminoso solo nella meditazione personale.

Fonte: Abbadia Oggi – Anno VIII – N 6 21 Novembre 1989 

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Abbadia: Le due tele di tradizione agostiniana nella Chiesa di San Lorenzo

domenica, Gennaio 1, 2012 @ 06:01 PM
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S. Agostino fu uno dei primi, in occidente, a dare una regola monastica ai suoi seguaci.
Parecchi ordini religiosi, fra i quali i Servi di Maria presenti in Abbadia per quasi sei secoli, si ispirarono alla sua regola.
Un ricordo della spiritualità agostiniana sono i due grandi quadri che si possono osservare nella nostra chiesa parrocchiale, appena entrati dalla porta principale, a destra e a sinistra. Provengono dal Conventino e furono messi in questo luogo da don Raspini.

san agostino - chiesa san lorenzo
A destra una grande tela alta m. 1,90 e larga m. 2,70 raffigura la Madonna con il bambino in braccio, che consegna la cintura al vescovo Agostino. Per terra si trova un libro, segno della cultura, della sapienza del santo, alle sue spalle la madre Monica e un altro frate. Nell’angolo a sinistra in basso un putto osserva la Vergine, così pure nell’angolo a destra in alto due angioletti seguono giocosi l’apparizione, mentre al centro compare solo la testa di un putto. Tutta la scena si svolge lungo la linea diagonale compresa tra gli angioletti. Il paesaggio raffigurato nella parte destra in basso mette in evidenza la capacità descrittiva dell’autore a noi ignoto. La cintura è una piccola striscia di stoffa o di cuoio da stringere intorno alla vita, come segno di appartenenza a Maria Vergine. Da qui deriva la devozione alla Madonna della Cintura presente in Abbadia.
Sulla parete di sinistra si trova l’altra tela gemella, che pure parla di S. Agostino. Il vescovo di Ippona è stato un grande studioso, un acuto teologo. Fra le numerose opere che ha scritto si trova un trattato sulla Trinità, mistero che ha meditato profondamente. Il quadro in questione nell’angolo in alto a sinistra raffigura le tre persone della Trinità nella gloria del cielo. In basso un bambino, con una conchiglia, cerca di spostare l’acqua del mare in una buca, sotto gli occhi incuriositi di S. Agostino. La leggenda dice che mentre il santo stava meditando sul mistero della Trinità per scrivere il suo trattato, vide un fanciullo sulla spiaggia che cercava di travasare l’acqua del mare in una buca. Allora intervenne dicendo: “Come è possibile che l’acqua del mare posssa essere contenuta in una piccola buca?”. Il bambino che in realtà era un angelo, rispose: “Come è possibile che il mistero della Trinità sia contenuto nella tua testa?”.
Le tele furono dipinte nel sec. XVII e vennero conservate nel Conventino fino al 1912. Don Rosaspini, nel numero di settembre del 1935 del bollettino parrocchiale “La Voce del Pastore” dice che la devozione alla Madonna della Cintura fu introdotta e diffusa in Abbadia dai Padri Serviti. “Si può desumere chiaramente da due grandi quadri che nel 1912 trovai ancora appesi nell’ampio corridoio superiore dell’ex convento e che nel 1915 feci ritoccare dal pittore L. Tagliaferri e trasportare nella chiesa parrocchiale”.

Fonte: Abbadia Oggi – 21 Novembre 1990

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